La scena e il mito un secolo sul «Ring»

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Storia della regia wagneriana

 
Mettere oggi in scena il Prologo e le tre Giornate del Ring wagneriano, ossia l’Anello del Nibelungo, significa non soltanto affrontare un testo di enorme complessità drammaturgica ma anche confrontarsi con quasi centovent’anni di vicende interpretative. Ridisegnarne le tappe equivale a riconoscere mutamenti anche profondi di concezione registica, progressivi slittamenti da una visione globale sanzionata dall’autore nelle prime rappresentazioni a Bayreuth verso l’assolutizzazione di singoli aspetti: in una ricerca di estreme connessioni da un lato con i temi universali che vi sono trattati, dall’altro con l’attualità storica.

Naturalismo e simbolismo, realismo psicologico e parabola allegorica coesistono nell’utopia wagneriana dell’Anello. Lo stile originario di Bayreuth, che si mantenne pressoché inalterato fino alla caduta del Reich, protetto prima dalla vestale Cosima e poi dal figlio Siegfried, ribadiva un principio di autorità che era insieme didascalico e sacrale: le indicazioni sceniche erano rispettate alla lettera, i pesanti armamentari nibelungici occupavano staticamente gli spazi in senso rituale, mentre alla musica spettava il compito di farli lievitare in gesti e atti che fossero davvero drammaticamente eloquenti.

Grandi cantanti e grandi direttori cresciuti nel verbo wagneriano officiavano solennemente questo culto, a celebrazione di una grandezza, ad onta delle strumentalizzazioni, mitica e non mitologica.

Per quanto fin dagli anni della tradizione aurea vi fossero stati tentativi di riforma (già Adolphe Appia aveva applicato teorie scenografiche geniali alla reinvenzione di una dimensione spaziale e temporale più allusiva che realistica), il canzbiamento di prospettiva si compì con Wieland Wagner, a partire dal suo primo allestimento degli anni Cinquanta a Bayreuth.

Wieland spogliò il Ring di ogni orpello scenico per puntare a una interpretazione oniricamente simbolica, di un simbolismo per così dire ascetico, concentrando l’azione sulla parola cantata e sui conflitti dei personaggi-figure. La scena svuotata si riempiva così interiormente di tensioni ideali, di velate suggestioni e di chiaroscuri infiniti: Wagner veniva ripulito degli accessori inutili, di ciò che pareva il mero involucro di un’astrazione, la metafisica del dramma musicale.

Il magico equilibrio raggiunto da Wieland si spezzò di nuovo allorché all’interpretazione metafisica subentrarono l’indagine sociologica e politica, l’ottica parziale volta a inquadrare la Tetralogia nella cornice borghese dell’epoca, nonché quella partigiana della critica ideologica.

Per gli adepti la rottura esplosiva s’identificò con l’allestimento del centenario di Patrice Chéreau a Bayreuth; in realtà era stato Luca Ronconi, proprio alla Scala nella Valchiria, a inaugurare questa tendenza, rimasta dominante, con accenti più o meno marcati, fino ai giorni nostri.

Le fasi che abbiamo sommariamente descritto riassumono un percorso assai ricco di possibili variazioni ma in sé fondamentalmehte esaurito. Il teatro di regia moderno ha definitivamente riattivato il palcoscenico, liberato forze represse, esorcizzandone i fantasmi.

Ora, finito il tempo di esperimenti a volte anche velleitari, è il momento opportuno per un nuovo e pacifico inizio. Occorre ripensare la sintesi originaria, senza enfatizzare tutto ciò che appare o tradizione o moda.

Un’equazione tanto difficile quanto necessaria: nonostante le molteplici incognite.

da “”La Voce””

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