Via via che Claudio Abbado veniva svelando, nel corso delle sue tournées con la Chamber Orchestra of Europe (il complesso a lui più consanguineo) la propria visione delle Sinfonie di Schubert, sempre più netta si faceva l’impressione che, ove quelle conquiste fossero state mantenute in sede di incisione discografica, noi avremmo avuto lo Schubert definitivo della nostra epoca.
Più che mantenerle, Abbado le ha ulteriormente accresciute e raffinate: sicché i cinque cd pubblicati separatamente e in cofanetto dalla Deutsche Grammophon (con in aggiunta alle otto Sinfonie l’Ouverture della Rosamunde la trascrizione per orchestra di Joseph Joachim della Sonata in do maggiore “”Gran Duo”” op. 140) ci consegnano la più compiuta ed emozionante integrale in cui ci si possa imbattere oggi nel mercato discografico.
Alla base di questo vertice interpretativo di Abbado (e se il giudizio sembrasse iperbolico, si ascolti per credere) sta la rivelazione di un elemento fondamentale, che precede la strutturazione stessa del discorso sinfonico: e cioè l’individuazione del “suono” di Schubert, qualcosa di costante e di unico pur nella molteplicità e varietà delle sue manifestazioni. “Suono” sta qui, più propriamente, per mondo sonoro: uno speciale timbro poetico e spirituale, oltre che musicale, che si diffonde nella sensibilità e nella coscienza sino a permeare, lungo percorsi finalmente riconoscibili anche se complessi, temi ed elaborazioni, sfondi e primi piani, immagini e sensazioni, sogni e realtà. Ed è come se noi esplorassimo questi orizzonti in un lungo viaggio al centro della musica, di un autore identificato, per serbarne poi memoria e nostalgia. Senza possibilità di perdersi e di smarrirsi: pur perdendoci, e sgomentandoci, ad ogni istante.
Abbado ci fa capire che il suono di Schubert è unico proprio perché racchiude molte cose insieme, stati d’animo calati in figure pregnanti, e lo offre analiticamente, quasi mettendolo a nudo; ma subito lo ricompone, e lo comunica per sintesi fulminea nella sua interezza.
Questo lavoro, esteso all’orchestra in modo così naturale da sembrare innato, crea un effetto a cui corrisponde (e che realizza) il carattere intimo della musica di Schubert: quell’oscura inquietudine sospesa sull’attesa, continuamente prorogata dall’apparizione, che colma quel tempo e quello spazio, di idee tematiche in se stesse definite e sviluppate; istanti di gioia protratti nella durata, pregni di sostanza e di valore, ma proiettati infinitamente al di là della realtà, nella sfera del fantomatico e dell’immaginario.
Abbado coglie questo aspetto con la lucidità dell’uomo moderno, che sa quanto labili siano i confini fra sogno e realtà, e lo mette a profitto scorgendo in Schubert i tratti anticipatori del nostro destino; ma nello stesso tempo non rinuncia all’incanto di una visione in cui l’ambiguità non si è ancora palesata, e la musica è capace di compiere la trasfigurazione; o almeno di trasportare in un mondo di sogno non dilaniato dagli incubi e dalla disperazione, perché ha in se stesso il proprio riscatto. La poesia ineffabile dell’Incompiuta si distende su questo incanto con una tenerezza che commuove. Ora Abbado guarda al grande arco della musica, oscillando con essa, registrandone delicatamente i palpiti (quei pianissimo che danno i brividi), ma per accordarli nel respiro profondo dell’anima. Ricordavamo, dei suoi giovani anni, un’altra Incompiuta , franta, aspra, tutta percorsa da spasimi mahleriani; questa è nitida, distesa, traslucida, calda, e perciò nell’insieme tanto più tragica e trepidante, quasi assorta nella sua ineluttabilità: vera, semplicemente, e schubertiana.
Nel blocco delle Sinfonie giovanili Abbado esalta – per esempio nella Prima e nella Terza – la vivacità dei colori, l’esuberanza dei ritmi, la generosità degli slanci melodici, con una chiarezza dei rapporti armonici e delle figure strumentali, sovente contrapposte per famiglie, assolutamente perfetta. Vi emerge, fra l’altro, tutto il rossinismo di Schubert, con quella pungente acutezza che già nel modello Abbado aveva saputo mettere in luce come nessuno. Nelle sinfonie che potremmo definire di passaggio, come la Seconda e la Quinta, emerge invece l’altro aspetto, quello più meditativo (la sospensione delle variazioni, di cui Abbado fa una contemplazione già ai limiti della vertigine; o la grazia svagata, malinconica dei Minuetti) e lirico: assecondando quelle melodie che nella loro incrinabile campitura richiusa su se stessa già prefigurano, enigmaticamente, orizzonti sconfinati. Alla intensificazione espressiva della Quarta, dove qualche scatto nervoso prontamente raccolto dal direttore sembra addensare ed esacerbare la forma, fa riscontro la rigorosa disciplina della Sesta, una fuga verso regioni più calme e purificate, compiuta già con un nodo alla gola (e nell’Allegro Moderato finale Abbado, con trapassi di tempo di straordinaria finezza, ci avverte che qualcosa si sta oscurando, forse per sempre).
Il senso del tempo, emblema dell’arte matura di Schubert, richiede dall’interprete nell’ultima grande Sinfonia in do maggiore attenzione speciale. Anzi, è in esso che si giocano le sorti stesse dell’interpretazione. Anche qui, rispetto a prove precedenti, Abbado sembra aver messo a fuoco la sua concezione, sulla scorta di un’intuizione precisa, magistralmente realizzata: egli incalza e serra il tempo in una scansione drammatica e incisiva, come se dalla implacabile necessità del ritmo, dalle sue ripetizioni e relazioni, nascesse un nuovo ordine strumentale, una trama segreta e intrecciata di significati. Siamo, così, lontani dalle “celestiali lunghezze” dell’oleografia convenzionale, e catapultati senza difese nel cuore di un universo formale ed espressivo terribile e soave insieme, alle radici di quell’arte finalmente libera e sicura di sé che Schubert aveva appena intrapreso con questa sinfonia, dopo la morte di Beethoven, nel breve tratto che ancora gli rimaneva da vivere.
Ed è oltre le soglie di questo congedo che Abbado ci conduce, dopo un viaggio indimenticabile.
Schubert, Otto sinfonie, Ouverture della Rosamunde, Sonata in do maggiore op. 140 “Gran Duo” (trascrizione di Joseph Joachim); The Chamber Orchestra of Europe, dir Abbado, Deutsche Grammophon 423 652-62 (5 cd).
Il giornale della musica, n. 37, marzo 1989