La trilogia diretta da Muti, un atto di cultura

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Caro direttore,

chiedo la Sua ospitalità per intervenire su un punto delle celebrazioni verdiane in corso.

Son passati i tempi in cui la cosiddetta «trilogia romantica» poteva fregiarsi anche del titolo di «popolare»: intendendo con ciò non tanto un carattere stilistico (almeno non nella sostanza dei valori musicali) quanto un livello di gradimento, in virtù del quale Verdi veniva quasi identificato con Rigoletto, Trovatore e Traviata, nel bene come nel male. Dove il male consisteva nel fatto che proprio su queste opere si era costruita una mitologia a uso e consumo dei cantanti, perdendo di vista non soltanto la lettera della partitura ma anche le intenzioni del testo: il che significa la loro verità.

E’ solo apparentemente un paradosso che la popolarità della trilogia sia diminuita nel repertorio via via che si riduceva lo spazio, mentale prima ancora che fisico, dell’arbitrio dei cantanti.

L’operazione della Scala di rappresentare insieme le tre opere facendole coincidere con il cuore delle celebrazioni verdiane va ben oltre l’eccellenza specifica delle esecuzioni, frutto di volontà artistica, di continui ripensamenti e approfondimenti, musicali e drammaturgici, da parte di Riccardo Muti: è un atto di cultura, nel senso più elevato del termine. E lo è per almeno tre motivi.

Il primo è aver imposto la centralità del ruolo del direttore d’orchestra come garante della fedeltà al testo e della omogeneità esecutiva, presentando le tre opere in un’unica linea interpretativa tanto coerente quanto attenta, nel confronto ravvicinato, alle differenziazioni. E siccome non si ricorda da parte di altri direttori una realizzazione simile, l’impresa non potrà non rimanere un punto di riferimento oggettivo nella storia dell’interpretazione verdiana. Il secondo motivo è aver legato proprio quest’impresa a concezioni sceniche di raro equilibrio, fondamentalmente unitarie pur nella diversa sensibilità dei registi, tali da configurare forse una svolta nell’effimero imperante in questo campo. Il terzo è aver forgiato giovani compagnie di canto di qualità, e italiane per di più, che hanno recepito il loro ruolo come un impegno di maturazione e di crescita, strumento non di esibizione personale ma di servizio e di dedizione a un’idea: un investimento per il futuro del teatro.

Vogliamo aggiungere un quarto motivo? Aver ridato il loro rango alle opere più popolari di Verdi educando il pubblico non soltanto ad amarle di nuovo nella realtà imprescindibile di esecuzioni dal vivo ma anche a conoscerle riflettendo su come veramente sono.

da “Il Corriere della Sera”

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