L’altro Vangelo di Fabrizio

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Correva l’anno 1970 quando uscì La Buona novella, quarto album, compilazioni escluse, di un Fabrizio De André trentenne. Fabrizio era già allora un autore a parte, colto, raffinato, schierato, capace però di comunicare con tutti, in un certo senso trasversale. Con le sue canzoni di protesta e di amore (un amore che parlava esso stesso della protesta degli umili e dei perdenti) aveva definito uno stile severo e malinconico, introverso e incisivo. Uno stile inconfondibile, in gran parte dovuto, oltre che alla plasticità dei versi e alla forza elementare della musica, alla bellezza calma e profonda della sua voce, vibrante senza mai essere retorica. Tanto più colpì la svolta di un album che sembrava contraddire un’immagine consolidata (accadrà altre volte, nella sua carriera) e cercare strade nuove, fuori moda. Che c’entrava, in piena contestazione studentesca e accesa lotta di classe, quell’album di dieci numeri a sfondo religioso, legati alla figura di Gesù Cristo (e sia pure ispirati ai Vangeli apocrifi, ossia non riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa), che predicava in tenere ballate l’amore e la fratellanza universale? Si aprirono discussioni interminabili, in alcuni casi si arrivò perfino alla baruffa: Fabrizio, che era stato sempre e comunque uno dei nostri (anche se forse non sapevamo chi eravamo), ora ci divideva.
In realtà la questione non stava nei contenuti (dopo tutto, a leggere bene i testi e l’articolazione degli episodi, vi si poteva ritrovare tutto il De André precedente, tutti i suoi temi e i suoi motivi), quanto nella forma, poetica e musicale, scelta a rappresentarli. Una forma narrativa ciclica, singolarmente sommessa e intima, con alcuni scarti improvvisi che sembravano fratture a stento ricomposte, implicanti tutta una serie di riferimenti, per esempio all’antica sacra rappresentazione: i cori che commentano l’azione, il parlato che la oggettiva, gli studiatissimi preludi e postludi strumentali che ne innalzano il tono, la cornice iniziale del Laudate Dominum gregoriano che diviene alla fine, con significativa trasformazione, un inquieto Laudate hominem pregno di ritmi sincopati e di angolosità stravinskiane. E la stessa mescolanza di colto e di popolare, di realistico e di esotico-orientaleggiante, di contemplativo e di rappresentativo, con riflessi screziati nella linea vocale e nella strumentazione, non era forse una sfida all’unità convenzionale? Non sembri un paragone esagerato: qui corre la stessa differenza che passa tra lo Schubert dei Lieder isolati e quello dei cicli maturi. La difficoltà nasceva dunque dall’accettare ciò che De André aveva sempre fatto ma che ora disponeva in modo più complesso, virtualmente scenico: darci una visione del mondo che fosse, oltre che opera di poesia, anche strumento di critica e di cultura.
De André ha sempre visto la storia come dall’altra parte, dalla parte degli sconfitti. Nella Buona novella (titolo già di per sé problematico: dove sta la “”buona novella””, se gli
apostoli «Han chiuso le gole alla voce»?) sfilano personaggi attorno alla figura di un Assente, Cristo appunto, che cambia i destini del mondo e delle persone attraverso il dolore e la violenza del potere. Le stazioni di un’ironia tragica rappresentate nella fragile innocenza femminili: l’infanzia di Maria, rinchiusa bambina nel tempio e poi espulsa nel momento in cui diviene donna, costretta a inventarsi un sogno per giustificare la sua gravidanza a Giuseppe, marito vecchio e stanco, che quasi non sa come toccare quel piccolo fiore e vorrebbe comprenderne il mistero. Maria ormai adulta, che nella bottega del falegname apprende come in una giocosa filastrocca che delle tre croci che si stanno costruendo la più grande è destinata a far morire suo figlio. Maria che ode sulla via del Calvario i padri dei neonati che Erode ha trucidato imprecare e urlare di gioia per la vendetta, e che perfino le madri dei due ladroni crocifissi ai lati di Gesù lasceranno sola nel suo pianto, affranta, confortata soltanto da uno straniato, struggente controcanto del violoncello.
«Lascia noi piangere un po’ più forte», le dicono le altre due donne, «chi non risorgerà più dalla morte». Ora lo scenario muta, e viene il pezzo forte, del ciclo, che svela l’allegoria della “”buona novella””: quel Testamento di Tito che imparammo subito a memoria come un rabbioso controcatechismo e che Fabrizio, nei suoi concerti, spesso estrapola dal contesto per proporlo come il più laico degli atti di fede nell’uomo, nell’altro Vangelo. Fede e miscredenza, tragedia e commedia, terrore e speranza coesistono in una visione scettica e accorata, da cui scaturisce il messaggio corale: «No, non devo pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio». Esito che coniuga, in senso drammatico, la tesa spiritualità di una trasfigurazione con stizza repressa e la ribellione di un finale sospeso, euripideo.

Sistema Musica, a. III, n. 10, dicembre 2001

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