La Svezia, paradiso della ragione e dell’organizzazione, con licenza di trasgredire ma non di sovvertire, incarna un’idea di cultura che non può non colpire il visitatore italiano. A Stoccolma si è attirati soprattutto dalle sublimi regie che Ingmar Bergman allestisce al Dramaten, il massimo teatro di prosa svedese; ma anche un approccio favorito dalla mediazione di una personalità eccezionale come Bergman presenta immediatamente i tratti di una civiltà che intende arte e spettacolo, teatro e cultura, come una componente essenziale della vita individuale e sociale, alla portata di tutti. Per la musica non esiste oggi in Svezia un uomo-faro del calibro di Bergman. Esistono però le condizioni che consentirebbero a un Bergman, ove rinascesse musicista, di svilupparsi professionalmente e artisticamente secondo la propria personalità.
Storicamente, la musica in Svezia ebbe un forte incremento sotto Gustavo III, il re umanista, amante dell’opera, che promosse la formazione di una compagnia nazionale e inaugurò nel 1782 il primo Teatro Reale dell’Opera, nel quale fu assassinato da congiurati, creando un mito che, attraverso Scribe, giunse fino alla prima versione del Ballo in maschera di Verdi. L’attuale edificio, monumentale, sfarzoso, affacciato sul golfo, risorse sulle ceneri di quello. Oggi l’Opera di Stoccolma è un teatro moderno, che funziona alla tedesca: aperto tutte le sere, con turni di abbonamento a rotazione; ha una compagnia stabile e un repertorio amplissimo, eseguito sempre, salvo rare eccezioni, in lingua svedese.
Il livello esecutivo è mediamente alto: chi va all’opera ha la certezza di assistere a una buona e attendibile rappresentazione, senza nomi altisonanti o forzature ideologiche. Vige il criterio della normalità; e se il teatro di regia moderno accampa i suoi diritti, anche questo rientra nella normalità.
A differenza dei vicini paesi scandinavi, la Svezia non ebbe nell’Ottocento una propria scuola nazionale. Fu invece, già allora, e ancor più nel nostro secolo, un serbatoio ricchissimo di cantanti, alcuni dei quali hanno fatto epoca, come Jenny Lind, l’“usignolo svedese”, o si sono affermati nell’impervio repertorio wagneriano e straussiano, come Kerstin Thorborg, Set Svanholm, Birgit Nilsson. Sono, questi, i vertici di una piramide alla cui base si trovano non solo spiccate doti naturali, per così dire di razza, ma soprattutto una educazione musicale diffusa e solida, con poi differenti stadi di selezione. Per rendersene maggiormente conto, basta ascoltare la civiltà dei cori amatoriali, non troppo diversa, se non per consapevolezza professionale, da quella del celebre complesso della Radio Svedese.
Questo esempio può essere esteso a tutto il sistema dell’organizzazione musicale. La musica, bene che appartiene a ognuno di diritto e qui anche per tradizione, viene insegnata sistematicamente fin dalla scuola primaria ed elementare nella duplice forma dell’educazione al canto e all’apprendimento di uno (o più) strumenti. Chi la vuol scegliere per mestiere ha le strutture adeguate per farlo, ma deve sottoporsi a una rigorosa selezione per stadi progressivi, di cui la Scuola Superiore di Musica, specializzata a livello universitario, è il punto di arrivo, e insieme di partenza, per l’attività professionale. E poiché il fabbisogno di musicisti è commisurato alle esigenze sociali e al numero delle istituzioni, chi ne esce trova subito impiego secondo le proprie qualità, in provincia o nella capitale: con il vantaggio di avere come referente un pubblico preparato e consapevole, che comunque lo apprezzerà e ne riconoscerà la funzione. In questo senso i vertici sono solo il risultato di una lunga, meticolosa preparazione, e in quanto tali vengono esportati anche all’estero.
Lo stato amministra questo sistema con oculatezza. I preventivi sono fissati con estrema precisione e debbono essere rispettati alla virgola: non sono ammesse deroghe. Siccome è lo stato a investire per la musica, che è un bene sociale e un servizio per la collettività, i prezzi di entrata agli spettacoli sono calcolati nella misura delle spese erariali (di fatto una poltrona costa ventimila lire, e il cambio ci è sfavorevole) e le recite sono programmate in base alla richiesta, a orari comodi, con facilitazioni per chi viene dalla provincia: teoricamente, tutti quelli che desiderano vedere uno spettacolo, ove non siano abbonati (ma la maggior parte degli interessati lo sono), debbono essere accontentati. In pratica, il problema, o se si vuole la discussione anche polemica, verte sulla quantità di danaro che lo stato investe per la cultura, giudicata da molti inadeguata rispetto ad altri capitoli di spesa. Ma nessuno qui si sognerebbe di pagare svariati milioni a recita per un cantante o un direttore, perché ciò altererebbe le proporzioni di un servizio sociale. Una primadonna all’Opera di Stoccolma ha uno stipendio fisso, alto ma non faraonico: pare naturale che chi ha investito su di lei istruendola e qualificandola debba poi riceverne un beneficio. Senza esagerare nelle gratificazioni, e meno ancora nel divismo.
Il pericolo di una organizzazione siffatta è quello della burocratizzazione, dell’efficienza ad ogni costo, del soffocamento della fantasia. Molte voci, anche nel campo della musica, si levano a stigmatizzarlo. I giovani compositori lamentano di avere poco spazio per le loro ricerche; i dischi e la televisione portano fra le pareti domestiche l’eco di esecuzioni mirabolanti, di serate d’opera trionfali; molti sognano di vedere almeno una volta la Scala, di ascoltare dal vivo Pavarotti, di accendere una candelina all’Arena di Verona. A tutto questo lo stato svedese non può provvedere. Non sanno quale prezzo dovrebbero pagare in cambio per avere qualcosa di simile. Eppure ci invidiano, e ci chiamano fortunati.