L’opera, bene collettivo?

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La crisi in cui versano i teatri lirici in Italia, lungi dall’essere solo economica, si sta rivelando crisi di identità, e di funzione: il pubblico non si rinnova, il repertorio invecchia, la società nel suo insieme minimizza o snobba.

Nell’editoriale del numero scorso Carlo Majer pone domande a cui urgono risposte. Si sbaglierebbe però a credere, nascondendosi dietro a un dito, che la crisi dei teatri lirici sia soltanto economica, di finanziamenti. Essa è ben più profonda e grave: è crisi di identità e di funzione. Da un lato c’è il logoramento obiettivo del repertorio non supportato da un adeguato ricambio dell’opera contemporanea (l’opera è sempre stata un prodotto del giorno, non del passato), dall’altro l’allontanamento del pubblico, soprattutto di quello giovane, che ha oggi modelli e parametri diversi da quelli offerti dal melodramma (difatti si cerca di rinfrescarlo con messe in scene attualizzanti, o andando a pescare in epoche remote come il barocco). Inoltre i teatri sono istituzioni vetuste, immobili ed elefantiache, che hanno costi fissi insostenibili e poca considerazione per la qualità: avrebbero bisogno di interventi drastici e radicali. Con Sinopoli ci provammo all’Opera di Roma, incontrando non soltanto lo sbarramento dei sindacati ma anche il voltafaccia dei politici che pure avevano dichiarato la necessità di un cambiamento.

Non si tratta dunque di questo governo, ma di una generale sfiducia istituzionale verso il teatro lirico come fatto di tradizione e di cultura. E di questo occorre prendere atto. Quali le risposte allora?

Non bisogna dare per scontata la sopravvivenza dei teatri, appellandosi a valori non più socialmente condivisi allo stato attuale delle cose, ma rilanciare, se ci si crede, l’insostituibile funzione della musica e del teatro come strumento di formazione umana e spirituale. Accettare dunque il ridimensionamento e controbilanciarlo, quasi ripartendo da zero, con la nuda forza delle idee, dei progetti, delle invenzioni, delle convinzioni; una su tutte: che il teatro sia un luogo nel quale tutti possono trovare la propria ragione di essere. E ciò non può avvenire che credendo fermamente, senza compromessi o cadute, nel valore alto della cultura e dell’arte. È di questo valore che dovremmo riscoprire e divulgare coraggiosamente il significato. I teatri assomigliano oggi a catacombe nelle quali poche schiere di eletti continuano a officiare un rito antico. Sta a loro, alla loro determinazione, far sì che ci siano nuovi catecumeni, avviando in povertà di mezzi ma non di ideali un’opera di proselitismo.

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