L’originale e il suo doppio: la trascrizione in Busoni

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L’originale  e il suo doppio: la trascrizione in Busoni


Circa un terzo dell’attività compositiva di Busoni è occupato da lavori che rientrano sotto diversi aspetti nel genere della trascrizione: lavori cioè che consistono in revisioni, adattamenti, rielaborazioni di pezzi originali, scritti per un dato mezzo e trasposti (trascritti, appunto) su un altro mezzo. In questa categoria rientrano anche i casi nei quali il mezzo, per esempio il pianoforte, non cambi, cambiando però, internamente o esternamente, il carattere dell’originale: e sono i casi più numerosi. Gli autori sui quali Busoni interviene abbracciano l’intera epoca della musica moderna, da Bach a Schoenberg, passando attraverso Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, Liszt, per citare solo i maggiori. Sovente, ma non sempre, si tratta di elaborazioni o trascrizioni da concerto, destinate cioè al fine pratico dell’esecuzione e della diffusione in concerto. A questi lavori vanno aggiunte quelle composizioni originali di Busoni che, pur non appartenendo a pieno titolo al campo della trascrizione, da esso sono chiaramente influenzate e ne costituiscono per così dire il prolungamento: prendendo Busoni lo spunto da musiche o stili del passato assunti come punto di partenza per creazioni individuali, di carattere e impegno anche molto diversificati; basti ricordare, agli estremi opposti, la sesta Sonatina super “”Carmen”” (“”Fantasia da camera”” su temi dell’omonima opera di Bizet) e la Fantasia contrappuntistica, nata come completamento dell’incompiuta Arte della fuga di Bach e rielaborata in ben quattro differenti versioni.

Ciò basterebbe a dimostrare il ruolo centrale che la trascrizione ha avuto nella poetica musicale di Busoni: una poetica nella quale, come altrove ho cercato di spiegare(1), teoria e prassi tendono a convergere l’una nell’altra fino a sovrapporsi e a fondersi in uno, vicendevolmente sorreggendosi e valorizzandosi. Il concetto dell’unità della musica, posto da Busoni a fondamento della sua estetica ed esteso ad ogni tipo di manifestazione musicale, riceve anzi proprio nell’opera del trascrittore (e nelle ragioni teoriche che ne stanno alla base) la formulazione definitiva, quella che più si avvicina al modello di musica ambìto da Busoni: una musica nella quale siano abolite le distinzioni storiche di passato, presente e futuro e tutto miri, pur con le necessarie differenziazioni, alla perfezione “”classica”” e alla totalità dell’incondizionato, su una linea di continuità assoluta con la tradizione e di energica, incessante apertura verso il nuovo.

Non è senza peso a questo riguardo che proprio l’opera del trascrittore, forse anche perché connessa al magistero didattico e al mito del pianista, sia stata quella in cui più rimase legata la fama di Busoni dopo la morte e fra le due guerre: quasi che Busoni, anziché come compositore originale, contasse anzitutto come geniale rielaboratore di musiche altrui, soprattutto quando egli le rendesse con i mezzi potenziati, tesi al massimo, del pianoforte moderno (esempio limite, la trascrizione della Ciaccona di Bach). Solo in apparenza paradossale suona il fatto che nel corso della sua vita ancora come trascrittore Busoni venisse criticato e ostacolato nel modo più aspro: tanto innovatrici e radicali, rispetto alla moda corrente, apparivano le sue teorie e le sue esperienze di trascrittore. Nell’uno come nell’altro caso il giudizio era viziato da equivoci appartenenti a stadi storicamente assai diversi della ricezione musicale: ma tanto prima quanto dopo quel che sembrava sfuggire era la inscindibile totalità della concezione busoniana, che essa si esprimesse nel compositore, nel trascrittore o nell’esecutore, facce complementari di un’unica, complessa identità. Complessa e poliedrica ma, appunto, unitariamente perseguita.

Benché Busoni affermasse di esser stato avviato sulla strada della trascrizione da un impulso mimetico innescato dallo studio dei modelli di Liszt (e ciò accadeva in un momento particolarmente delicato della sua vita, verso i trent’anni, con risultati che si concretarono non soltanto nella esuberante trascrizione per pianoforte e orchestra della Rapsodia spagnola di Liszt, ma anche nella decisione energica di riprendere lo studio del pianoforte dall’inizio, e su basi completamente nuove), il punto di riferimento dal quale egli partì per definire e orientare la prassi della trascrizione fu l’esempio di Bach. “”Per rialzare di colpo la natura della trascrizione a dignità d’arte””, scriveva nel 1910, “”basta fare il nome di J.S. Bach. Egli fu uno dei trascrittori più fecondi di lavori propri e altrui, e precisamente nella sua qualità di organista. Da lui imparai a riconoscere una verità: che una musica buona, grande, ‘universale’, resta la stessa qualunque sia il mezzo attraverso cui si faccia sentire. Ma allo stesso tempo imparai anche una seconda verità: che mezzi diversi hanno un linguaggio diverso (loro peculiare) col quale comunicano questa musica in modo sempre un po’ differente(2).

I confini che delimitano l’area della trascrizione sono dunque fissati con estrema precisione: da un lato l’identità della musica in se stessa; dall’altro la molteplicità delle sue epifanie, ogni volta diverse, e tanto più diverse quanto più mutino il mezzo e il linguaggio specifico che le comunicano. Col che l’area d’intervento diviene pressoché illimitata, senza però dissolversi o sfumare: giacché guide del trascrittore in questo percorso variato all’infinito debbono essere, di fronte alla libertà senza restrizioni, il rispetto del gusto, il rigore dello stile, la logica della forma.

Questione non senza importanza. Busoni, guardando a Bach e a Liszt, avverte che la ragione storica della decadenza della trascrizione sta proprio nella perdita di queste guide, ossia nella maldestra riduzione del modello a copia sbiadita e informe, conseguenza di un divario qualitativo troppo netto fra originale e trascrizione. Che nell’Ottocento si siano avute molte cattive trascrizioni non prova nulla sul valore della trascrizione in sé: “”Quando si trattava di personalità deboli queste trascrizioni diventavano deboli riproduzioni di un originale più potente; e poiché in tutti i tempi i mediocri sono la maggioranza, al tempo dei virtuosi si ebbe un’infinità di trascrizioni mediocri, anzi di cattivo gusto e deformatrici degli originali, a causa delle quali íl genere si screditò e decadde(3)””.

L’atteggiamento di Busoni trascrittore radicalizza con l’esempio questa decisa affermazione di principio. Ma prima di passare a considerarne le forme e i significati è necessario tener presente quanto egli asserisce nello scritto in questione, poco più avanti:

 

“”La frequente opposizione che ho sollevato con le mie ‘trascrizioni’ e l’opposizione che spesso critiche irragionevoli hanno sollevato in me, mi hanno spinto a tentar di raggiungere la chiarezza su questo punto. Ecco quanto ne penso in definitiva: Ogni notazione è già trascrizione di un’idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale. L’intenzione di fissare con la scrittura l’idea impone già la scelta di un ritmo e di una tonalità. Forma e mezzo sonoro che il compositore deve scegliere determinando sempre più la strada e i suoi confini. Per quanto dell’indistruttibile carattere originario dell’idea qualcosa permanga, tuttavia a partire dal momento della scelta questo carattere viene ridotto e costretto a un tipo già classificato. L’idea diventa una sonata, un concerto; e questo è già un adattamento dell’originale. Da questa prima alla seconda trascrizione il passo è relativamente breve e senza importanza. Pure, in generale, si fa un gran caso solo della seconda. E nel far ciò non si avverte che la trascrizione non distrugge la versione originale, e che quindi non si perde questa per colpa di quella””(4).

Secondo Busoni, dunque, tutto in musica è trascrizione (ossia “”riduzione di un pensiero più grande per uno strumento pratico””, come egli puntualizzava ancora nel 1913); la creazione stessa è trascrizione: e la trascrizione propriamente detta un caso particolare di quella. Siamo qui al centro del pensiero estetico di Busoni; e difatti queste affermazioni riproducono letteralmente passi dell’Abbozzo di una nuova estetica della musica, nucleo generatore di quel pensiero. Il luogo che vi ha il problema della trascrizione, nel momento della massima evidenza teorica, si rispecchia su ogni altra forma di esperienza musicale, prima di tutto sull’esecuzione e sull’interpretazione, problemi che al pianista Busoni stavano naturalmente molto a cuore: “”anche l’esecuzione di un lavoro”” – egli ribadisce nello scritto citato – “”è una trascrizione, e anche questa non potrà mai far sì che l’originale non esista – per quanto libera ne sia l’esecuzione””. Si giunge persino a corollari impensati, come quando Busoni affida al pubblico una parte importante nella ricreazione della musica; sicché, sebbene egli non lo dica esplicitamente, anche l’ascoltatore è in fondo un trascrittore: giacché “”trascrive”” ciò che ascolta in base alle proprie facoltà ricettive, alla propria psicologia, alla propria sensibilità e cultura.

Ma che cosa significa tutto ciò? Alcune riflessioni scaturiscono di getto. Esse illuminano per così dire in controluce, senza disegnare contorni netti, aspetti contraddittori e ambigui (di un’ambiguità, come vedremo, quasi mortale alla fine) del tutto tipici della personalità di Busoni, ed evidenti su piani diversi (esistenziale, non meno che artistico). Potremmo sintetizzare questi aspetti in un intreccio inestricabile di pessimismo e di ottimismo. Il pessimismo di Busoni consiste nel riconoscere l’assoluta intangibilità e incomunicabilità dell’idea musicale originale, dell’opera d’arte così come viene concepita nel mistero ineffabile dell’intuizione creativa. L’originale esiste, ma non è afferrabile se non nell’apparenza del suo doppio. Il suo ottimismo, invece, nel considerare viva e reale la musica soltanto attraverso la sua riproduzione e ricreazione concreta, frutto di una scelta i cui confini sono per definizione illimitati ma che circoscrivono un vuoto colmabile soltanto artificialmente. Quella realtà intangibile può essere soltanto trascritta, usando tutti i mezzi di cui il compositore dispone per ridare qualcosa dell’essenza soprannaturale della musica: compito al quale l’artista creatore si dedica con gioia, senza porsi leggi precostituite, tutto provando e sperimentando nella certezza di costituire un anello in una catena infinita di proposte e di definizioni. E quanto Busoni riassume in un aforisma centrale del suo pensiero: “”L’opera d’arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo(6)””. Ossia irreale e reale insieme.

Fulcro che sostiene questi due poli e che per gran parte della vita di Busoni costituì il punto di equilibrio nel quale l’ottimismo prevalse sul pessimismo è la convinzione, anche questa apparentemente contraddittoria, che la storia della musica segua un percorso di continua evoluzione e che nello stesso tempo, sublimandosi, sia una categoria eterna, universale. Ossia, per fare un esempio, che Bach rappresentasse un momento assoluto di questa storia ma che nello stesso tempo le virtualità latenti nella sua opera si proiettassero, arricchendosi e svelandosi in modo nuovo, nel presente: dal passato verso il futuro, dal noto verso l’ignoto. Ciò rendeva lecita (o meglio necessaria) l’appropriazione della sua arte: nel senso però di una appropriazione attiva, tradotta in termini attuali, ovvero con i mezzi e il linguaggio della contemporaneità. E quello che vale per Bach vale per ogni altro compositore, anche recente: anche all’opera composta ieri può esser ridata vita (una delle sue molte vite) con mezzi arricchiti, perfezionati, adeguati a scopi compositivi moderni. Col che siamo proiettati di colpo, nuovamente, dalla teoria estetica generale al caso particolare della trascrizione.

 

Nel suo lavoro di trascrittore, Busoni distingue diversi stadi. Chiama Bearbeitungen (rielaborazioni) tutte quelle revisioni che adattando alla “”lingua del moderno pianoforte”” opere genericamente destinate alla tastiera, oppure specificamente al pianoforte, si esplicano nella realizzazione di problemi interpretativi (tempo, dinamica, agogica, diteggiatura, fraseggio, attacco del suono e così via) e in indicazioni sullo stile e sulla forma. Senza tralasciare di illustrare con esempi pratici i significati espressivi, costruttivi o musicali di ogni pezzo, considerato per sé e nell’economia dell’opera intera, Busoni lo reinterpreta a modo suo: e denuncia con chiarezza (“”libera rielaborazione da concerto””) i casi nei quali il suo intervento trasformi o sviluppi sensibilmente l’originale. La necessità di una versione il più possibile completa e stilisticamente attendibile, anche se personale, delle musiche clavicembalistiche di Bach si connetteva a quella di riplasmare quel copioso materiale sulle esigenze di un’alta scuola pianistica dagli ampi orizzonti, decisamente indirizzata verso il futuro (nelle aspirazioni del nostro, un nuovo stile pianistico, somma e sintesi delle esperienze precedenti). Non sorprende dunque che si estendesse anche ad autori più vicini nel tempo, ed eminentemente pianistici, come Chopin e Liszt: autori nei quali Busoni vedeva la possibilità di ampliamenti e rimaneggiamenti della veste strumentale, e di conseguenza della sostanza poetico-musicale, sempre allo scopo di trovare una stesura più piena; non migliore (l’originale esisterà sempre), ma semplicemente più viva (viva, propriamente) e adeguata alle risorse di un pianoforte moderno arricchito nei mezzi e potenziato nell’espressione. Lo studio busoniano del significato psicologico, oltre che formale, di un pezzo, si fondava sulla questione dei “”mezzi necessari ad esprimerlo””. Durante la sua opera di revisione su questi autori, verificata, non si dimentichi, nell’esecuzione diretta, Busoni aveva riscontrato inadeguatezze di scrittura perfino in Liszt, e ancora di più in Chopin e Franck; sul pianoforte moderno era necessario disporre la musica sotto le dita in modo adeguato, usando armonie ora strette ora piene e larghe, cogliendo il significato degli elementi compositivi e di quelli virtuosistici, sfruttando tutte le possibilità di registro e di sonorità: rendendo esplicito il senso implicito della “”strumentazione””. In ciò Busoni, coerentemente con la sua poetica, vedeva un campo aperto alla ricerca, alla sperimentazione, comunque all’intervento. Del resto, lo stesso Liszt non aveva lasciato versioni differenti di uno stesso pezzo, costellando la sua musica pianistica di “”ossia”” – cioè di varianti – che l’esecutore, nel caso, poteva sostituire al testo “”fondamentale””? E in questi casi, quale è l’originale e quale la trascrizione? Quale la versione “”definitiva””? Semplicemente quella scritta più tardi?

Riserva invece il termine specifico di trascrizione (in tedesco Ubertragung: in senso proprio “”trascrizione””; ma anche “”traduzione””) ai lavori che riproducono sul pianoforte opere destinate ad altri strumenti: in primo luogo ancora bachiane (tutte dall’organo, con l’unica celeberrima eccezione della Ciaccona dalla Partita in re minore per violino solo), ma anche di Mozart, Schubert, Schumann, eccetera(7). Dal revisore, che ha lasciato la sua più compiuta testimonianza nei due volumi del Clavicembalo ben temperato (“”quest’opera tanto importante dal punto di vista pianistico e onnicomprensiva da quello musicale””, ceppo originario da cui derivano “”le molteplici ramificazioni della tecnica pianistica odierna(8)), al trascrittore propriamente detto – cammino al cui centro sta idealmente l’opera del “”rielaboratore”” – nulla muta nello spirito dell’attività busoniana: essa semplicemente si radicalizza e diviene ancor più conseguente da un lato nella ricerca di una realizzazione pianistica specifica (all’occorrenza ampliata all’uso di due pianoforti), dall’altro nell’indagine dei princìpi costitutivi della “”dottrina del comporre””. Fu anzi l’individuazione di tali princìpi attraverso Bach e Liszt a mettere in moto, quasi per generazione spontanea, la linfa vitale dell’esperienza creativa del musicista moderno, verso esiti tanto individuali quanto progressivi. L’opera “”originale”” di Busoni (eccezion fatta per il teatro, che fa storia a sé) ci appare dunque come la logica, lucida e appassionata continuazione di quella del trascrittore.

 

Busoni, come si è visto – e la cosa è di primaria importanza – considerava il pianoforte un mezzo dalle possibilità tecniche pressoché illimitate; l’esemplare perfetto di tutti gli strumenti a tastiera; ma anche “”il principe degli strumenti””. Ciononostante esso rimaneva un mezzo: le forme e i criteri della trascrizione dovevano ogni volta uniformarsi e volgersi ai fini e ai compiti artistici fissati dal creatore-interprete. Possiamo riassumere la sua opera di trascrittore, nei vari stadi in cui si realizza, in due grandi filoni. Il primo, di ispirazione bachiana, è di tipo logico-architettonico; il secondo, di ispirazione lisztiana, di tipo virtuosistico-rappresentativo. L’uno dunque è radicato in una concezione severa, austera, quasi ascetica del comporre; l’altro scaturisce da una più marcata libertà fantastico-improvvisativa ed è strettamente legato alla prassi concertistica, come occasione offerta all’interprete di mettere in evidenza la sua bravura e il suo stile personale. Non si esaurisce però in essa.

Definendo le trascrizioni nel senso virtuosistico “”un accomodamento di idee altrui alla personalità dell’esecutore (9)””, Busoni ne individua la matrice storica nella figura ottocentesca del virtuoso, creata da Paganini, estesa al pianoforte da Liszt e da lui tramandata attraverso la sua prodigiosa scuola. “”I virtuosi precedenti alla penultima generazione”” – scrive – “”suonavano in verità soltanto opere proprie o trascritte da loro: suonavano quello che si erano accomodati da sé e per sé, quello che ‘faceva per loro’, e propriamente solo quel che erano in grado di suonare, sia riguardo alla sensibilità che alla tecnica(10)””. Busoni raccoglie l’eredità di questa tradizione, ai suoi tempi alquanto inflazionata, ma risale direttamente al capostipite, Liszt appunto, assimilando le sue conquiste e traducendo il suo esempio in termini attuali sia dal punto di vista linguistico che tecnico-espressivo. Basandosi sullo studio del “”pensiero pianisticamente traformatorio”” di Liszt, espressione felicissima che coglie in tre sole parole il nocciolo di quell’arte pianistica; un pensiero nel quale – altra magistrale intuizione – “”la tecnica è al servizio dell’idea””(11), Busoni mira a costituire una vera e propria scienza della trascrizione virtuosistica: a fissarne i criteri dal punto di vista concettuale senza tradirne lo spirito fantasmagoricamente inventivo, quasi nascesse ogni volta dall’estro inesauribile del momento, dell’istinto e dell’ispirazione. Sfruttamento dei mezzi fino agli estremi limiti – per esempio dell’estensione della tastiera, della tecnica degli accordi, dell’intreccio melodico e polifonico, della più alta virtuosità –, intensificazione dei contrasti e dell’espressione patetica, grandissima libertà e soggettività d’interpretazione – e dunque licenza di modificare, riadattare, riscrivere passi introducendo anche nuove sezioni di sviluppo, organiche al contesto –, sono le caratteristiche principali di questo lato della sua produzione. La fantasia sbrigliata dell’ornamentazione, la tecnica raffinata dell’arabesco sonoro, il rivestimento dei nuclei melodici con figurazioni armoniche sempre cangianti, lo sfruttamento totale delle risorse espressive del pianoforte, si sposano a un preciso rigore formale e a una sapienza costruttiva che non rinuncia affatto all’ordine dell’equilibrio e della simmetria, avendo sempre presenti il senso dell’effetto sonoro, le esigenze della comprensibilità e della chiarezza: in una parola, della comunicazione, sia pur ad alti livelli. Il pirotecnico fuoco inventivo della fantasia arde sulle basi sicure della sicurezza formale di un atteggiamento classico: dato che fra parentesi apparenta Busoni agli esponenti della “”Neue Sezession”” berlinese, con i quali egli ebbe rapporti di amicizia e di militanza, e alle loro creazioni antico-moderne; e che talvolta ce lo fa apparire come un esponente quasi unico della corrente del Liberty in musica.

A far da contrappeso al filone virtuosistico-rappresentativo, che per la raffinatezza dei colori potremmo anche chiamare pittorico, quello che abbiamo definito logico-architettonico, di chiara ascendenza bachiana. Qui il discorso è per così dire tutto rivolto all’interno, ad estrarre dalla logica immanente del linguaggio compositivo tutte le possibili virtualità, al fine di renderle evidenti e illuminanti nella stesura arricchita di una versione pianistica moderna; talvolta invece riducendole all’essenza, in un processo “”privativo”” che aspira alla purezza dell’astrazione, all’oggettività plastica del blocco spazio-temporale. Questo filone è infatti innervato dal senso della monumentalità dello stile architettonico gotico, dai possenti, massicci pilastri che ne reggono i singoli elementi costruttivi sino alle figure ornamentali più graziose e fantastiche. La robustezza e insieme la flessibilità del tessuto contrappuntistico sono i dati stilistici fondamentali di questa zona dell’attività di Busoni trascrittore: dati artigianalmente assunti come garanzia di linguaggio positivo (lo stesso farà Schoenberg, sia pur verso esiti diversi) e con funzioni innovatrici, tutt’altro che regressive. Va da sé che sulla legittimità di trascrivere Bach sul pianoforte, Busoni non nutrì mai dubbi (ciò non significa che non covasse scrupoli filologici; d’altra parte, però); ma seppe distinguere, senza forzature né cedimenti nei confronti dei presupposti estetici, i problemi storico-compositivi, e provò a risolverli caso per caso.

Nella trascrizione di Bach dall’organo al pianoforte, per esempio, Busoni partì da una duplice convinzione: la riproduzione sul pianoforte delle opere organistiche di Bach era didatticamente necessaria per completare lo studio di lui, non solo pianistico, ma anche musicale, l’altezza del pensiero musicale bachiano essendo rispecchiata al massimo grado nelle opere per organo; inoltre, a prescindere dalla differente natura degli strumenti, la scrittura e la tecnica avevano potenzialmente le medesime radici, trattandosi in entrambi i casi di strumenti a tastiera “ben temperati”; così che l’opera di trascrizione dall’organo al pianoforte era non soltanto attuabile, ma offriva anche, salvi i debiti accorgimenti, arricchimenti impensati al pianoforte moderno e alla stessa realizzazione organistica. Come agì dunque Busoni? Inventando una scrittura rigorosa e insieme libera, tesa a rendere sul pianoforte la forza, la pienezza e le cangianti sfumature dei multicolori registri dell’organo, a fornire le basi di uno stile interpretativo corretto e razionale, per quanto passibile di ulteriori perfezionamenti. Libertà e rigore furono i termini di paragone con cui Busoni affrontò i problemi più spinosi, da quello dei raddoppi (risolto vietando tassativamente l’arpeggio ed elaborando invece una disposizione polifonica che ricreasse almeno l’idea dei “”ripieni”” e delle “”misture””), a quelli degli effetti di “”registrazione”” e dell’impiego del pedale destro, ritenuto indispensabile, contro l’opinione dei puristi, ogniqualvolta si suoni Bach al pianoforte. Aggiunte di vario tipo, omissioni e licenze (ossia libere elaborazioni), se inserite con naturalezza e per obiettiva necessità, senza offendere il gusto e lo stile, sono espressamente contemplate e trattate con dovizia di esempi teorici e pratici (12); ove una polifonia troppo intricata o una concezione del pezzo per due manuali presentino all’esecuzione ostacoli insuperabili, si propone la via d’uscita della trascrizione per due pianoforti. Nel complesso, si tratta di tesi oppugnabili, ovviamente; ma ben circostanziate. Di fatto, trascrivere per pianoforte le opere organistiche di Bach significò per Busoni non solo trovare il modo di estendere gli orizzonti tecnici ed espressivi dello strumento ma anche racchiudere in grande unità un’arte ai suoi occhi diversa per dimensioni, non per carattere e forma.

Diverso è il caso della Ciaccona dalla seconda Partita in re minore per violino solo Bwv 1004 di Bach. Lo scarto tra la forma originale e l’elaborazione concertistica per pianoforte risulta assai più netto, ma la trascrizione segue anche qui leggi rigorose. Non è né una parafrasi del testo bachiano né una fantasia, ma l’ideale prolungamento delle virtualità stilistiche in esso latenti, amplificate e approfondite nel passaggio dal violino al pianoforte: non intende dunque tradurre l’originale, ma ricomporlo su nuove, autonome basi. In altri termini Busoni, pur servendosi di tutte le risorse anche virtuosistiche del pianoforte, potenziate, per così dire, attraverso Liszt, quando trascrive la Ciaccona compie un atto eminentemente creativo: suo primo scopo è rendere evidenti e valorizzare l’armonia e la polifonia implicite nel testo originario, nella cui sontuosa fioritura melodica egli vede adombrato il modello di una melodia assoluta, portatrice dell’idea e generatrice dell’armonia e della polifonia universali. Lo sforzo di Busoni ricreatore mira così anzitutto a evidenziare le varianti armoniche, le possibili trasformazioni e alterazioni cromatiche del basso ostinato di Ciaccona pensato da Bach, e allo stesso tempo a sviluppare la polifonia dalla melodia; utilizzando a questo fine procedimenti contrappuntistici e modelli di elaborazione polifonica desunti dallo studio del modus componendi di Bach stesso e dall’analisi degli esempi da lui lasciati in questo campo; integrandoli con elementi compositivi nuovi, linguisticamente espansi (non solo materiale di contorno e nuove voci che tornino utili nell’elaborazione contrappuntistica), non presenti nell’originale ma coerenti con il suo sviluppo sul pianoforte. Accentuando il carattere di variazione continua di tutti i parametri della composizione (melodia, armonia, polifonia, ritmo, timbro, eccetera), Busoni cotruisce una forma ciclica assai più complessa di quella bachiana, permeata di sottili trasformazioni e derivazioni; con appropriate relazioni, stabilisce un itinerario di coerente equilibrio musicale, tanto dinamicamente ricco di sfumature e di contrasti quanto nella globalità unitario e logico rispetto alle masse delle forze in gioco.

L’allargamento e l’accrescimento dei mezzi di espressione in una interpretazione della tradizione eminentemente attiva; l’idea della necessità di una comunicazione fra artista e artista, fra opera d’arte e ascoltatore: sono queste le forze trainanti del pensiero estetico busoniano quale si realizza nei lavori di trascrizione. Essi trascendono i fini pratici del consumo, la moda corrente del virtuosismo fine a se stesso, e mirano a problematizzare l’ascolto, a farlo più cosciente, ma non a renderlo cerebrale o astratto. Anche per questo motivo Busoni desiderava che la realizzazione fosse non soltanto completa, ma conformata alla sensibilità di coloro cui era destinata; così che costoro potessero coglierla per così dire nella sintesi di valori originali e valori aggiunti mediante la trasformazione e la rielaborazione. Desiderando estrarre, svelare e trasmettere l’idea originale con la coscienza e il linguaggio della contemporaneità – giacché è dovere di un artista esser testimone del proprio tempo e guardare al futuro senza dimenticare l’antico – Busoni nella teoria equiparava l’originale al suo doppio: nella pratica creando, e successivamente sviluppando al di là delle convenzioni, lo stile o gli stili specificamente strumentali attraverso i quali l’idea originale assumeva significato vivente.

Rendere efficacemente comprensibili (dal proprio punto di vista, s’intende) i contenuti musicali di una composizione era per Busoni esigenza primaria, indefettibile. Fino a che punto fosse tale e a quali conseguenze potesse condurre lo dimostra non soltanto, da un lato, la trascrizione “”totalizzante”” e “”progressiva”” della Ciaccona di Bach, senza dubbio il vertice del “”pensiero pianisticamente trasformatorio”” di Busoni, ma anche, dall’estremo opposto, quella “”riduttiva”” e “”regressiva”” del secondo dei 3 Klavierstücke op. 11 di Schoenberg: una trascrizione che significativamente reca il sottotitolo “”interpretazione da concerto””. Perché “”riduttiva”” e “”regressiva””? L’intendimento, come ben riassume Stuckenschmidt, è quello di “”distribuire le nuove sonorità, accumulate da Schoenberg in modo brusco e aggressivo, su maggiori superfici, per lasciare loro del tempo e farle assaporare pianisticamente””. E proprio questo è il punto. Busoni si era reso ben conto dell’enorme importanza delle novità linguistiche introdotte da Schoenberg in quegli anni ma, forte della saldissima convinzione che un pezzo scritto per pianoforte – ci si passi la formula sbrigativa – dovesse comunque suonare “”pianisticamente””, evidentemente non ne condivideva la realizzazione, e in special modo mostrava di non comprendere la necessità della scrittura pianistica schoenberghiana, di proposito concentrata al massimo, ostica e irriducibile ai normali criteri di comunicabilità. Volle perciò ritoccarla, scioglierla e mediarla in una versione più piena e comprensibile, più adatta, secondo lui, alla dimensione concertistica. I mutamenti apportati all’originale allo scopo di renderlo più pianistico e più accessibile all’ascoltatore (e sia pur da un Busoni, occorre ricordarlo, allora all’apice della sua ricerca sul linguaggio e sulle concrete possibilità di un nuovo stile pianistico), finiscono per mettere in ombra l’idea originale, la snaturano, togliendo forza e significato alla sua carica autenticamente rivoluzionaria. In altri termini, si tratta di una trascrizione che, anziché sviluppare, riduce e comprime l’ignoto al già noto: il rapporto tra forma originale ed elaborazione appare disomogeneo, squilibrato, viziato all’origine, per quanto Busoni agisca al suo interno con assoluta coerenza. Singolare suona poi la nota che il trascrittore volle premessa al suo lavoro, quasi a premunirsi contro l’astrattezza dell’esecuzione e del contenuto stesso dell’opera:

 

“”Questa composizione richiede dal pianista la più raffinata padronanza del tocco e del pedale, una interpretazione intima, quasi improvvisata, ‘fluttuante’, una affettuosa immedesimazione nel suo contenuto, poter essere interprete del quale – soltanto come trascrittore – ascrive a suo artistico onore F.B (14)””.

Benché la trascrizione da Schoenberg risalga al 1909 e sia un caso unico nella produzione busoniana, è possibile individuare in essa un punto critico, quasi un momento di rottura, un ripiegamento che si sarebbe radicalizzato negli ultimi anni della vita di Busoni trovando eco, con inequivocabile chiarezza, negli scritti degli anni Venti. La chiusura su posizioni apertamente conservatrici, per non dire reazionarie (quanto spiacevoli, è inutile negarlo), è la conseguenza di un mutamento di rotta che non può esser spiegato con ragioni puramente polemiche o attinenti la sfera esistenziale. La brusca frattura di una continuità sentita fino a quel momento come intimamente necessaria ed essenziale per l’evoluzione della musica, si rispecchia anche nella drastica riduzione dell’attività di trascrittore, nel nostalgico ritorno a Mozart (le cadenze per i suoi Concerti, la nitida elaborazione per due pianoforti della Fantasia per un organo meccanico K. 608 e quella dell’Ouverture del Flauto magico), negli studi solitari, quasi privati, per prefigurare, in astratta contemplazione di sé, un nuovo stile pianistico, così come risulta negli ultimi esercizi della Klavierübung. Sembra quasi che Busoni, caduto preda di un cupo pessimismo circa le sorti della musica, abbandoni il campo prima che sia troppo tardi, in tragico isolamento, non riconoscendosi più in un’epoca le cui forme e i cui contenuti, idealmente, egli aveva contribuito in forte misura a determinare. Questo pessimismo risolto in misticismo, in astratta aspirazione all’incondizionato, che è poi il tono di fondo della tematica dell’ultima opera incompiuta, Doktor Faust, può essere metonimicamente spiegato anche come una perdita di fiducia nel valore della trascrizione, quale Busoni aveva inteso affermare nel corso di quasi tutta la sua vita; prima cioè che mirare al doppio, realtà vivente dell’originale, non gli bastasse più ed egli volesse varcare le soglie dell’inesprimibile e dell’incomunicabile, sfere per definizione riservate a un regno trascendente della musica “”sito al fondo d’ogni fondo””, proiettato in lontananza “”sino all’arco d’ogni vòlta dei cieli””. Sempre più perdendosi in esso senza esser capace di schiudere “”il cancello che separa il terreno dell’eterno””, e che avrebbe dovuto introdurci in un cosmo incontaminato di tesori inauditi, di bellezze primigenie: il vero regno della musica. O almeno senza sapercelo trascrivere.

 

(1) SERGIO SABLICH, Busoni, EDT, Torino 1982. In particolare i capitoli secondo (Il pianista e il trascrittore) e terzo (Il pensiero estetico).

(2) FERRUCCIO BUSONI, Valore della trascrizione, in Lo sguardo lieto (Tutti gli scritti sulla musica e le arti di B.), Il Saggiatore, Milano 1977, p. 218. I corsivi sono d Busoni.

(3) Ibidem, p. 218.

(4) Ibidem, p. 219.

(5) F. BUSONI, Lettere alla moglie, Ricordi, Milano 1955, p. 220.

(6) F. BUSONI, Valore della trascrizione, cit., p. 219. Il corsivo è di Busoni.

(7) Si veda il catalogo completo delle trascrizioni busoniane in appendice al mio citato Busoni.

(8) F. BUSONI, Introduzione al “”Clavicembalo ben temperato”” di J. S. Bach, in Lo sguardo lieto, cit., p. 253.

(9) F. BUSONI, Valore della trascrizione, cit., p. 218.

(10) Ibidem, pp. 217-218.

(11) F. BUSONI, Le edizioni delle opere per pianoforte di Liszt, in Lo sguardo lieto, cit. p. 326.

(12) Si veda il fascicolo Sulla trascrizione per pianoforte delle opere per organo di Bach allegato al volume Lo sguardo lieto, e particolarmente l’esemplificazione pratica della trascrizione del Preludio e fuga in mi minore di Bach, ivi riprodotto col testo originale per organo a fronte. Lo scritto originale fu pubblicato a Lipsia nel 1894 da Breitkop & Härtel, in appendice alla revisione del I volume del Clavicembalo ben temperato.

(13) HANS HEINZ STUCKENSCHMIDT, Schöpfer der neuen Musik, Suhrkamp, Frankfur am Main 1958, p. 13.

(14) ARNOLD SCHOENBERG, Klavierstücke op. 11 n. 2. Konzertmässige Interpretation von F.B., Wien Universal Edition 1910. “”Rein als Klaviersetzer””, specifica Busoni “”Klaviersetzer””, propriamente, vale “”colui che compone per il pianoforte””. Busoni vuo le indicare qui qualcosa di diverso da trascrittore, rielaboratore, arrangiatore e da termini simili usati altrove: appunto una interpretazione realizzata sul pianoforte, immedesimandosi nel contenuto della composizione.

(15) F. BUSONI, Il regno della musica (epilogo della muova estetica), in Lo sguardo lieto, cit., p. 72.

Dal Quadrimestrale Musica/Realtà, n. 11, Agosto 1983

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