Luigi Dallapiccola – Il Prigioniero, un prologo e un atto (in forma di concerto)

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Ricordare Dallapiccola a vent’anni dalla scomparsa significa anzitutto tornare a riflettere su uno dei più importanti compositori italiani del Novecento: figura di spicco della musica del nostro secolo e come tale definitivamente entrato nella storia. Ripensarne il cammino attraverso la sua opera più sofferta, Il Prigioniero, vuol dire però anche riconsiderare la figura sotto l’aspetto del suo rapporto con la storia, riconoscere il terreno della sua battaglia, e la ragione dei suoi esiti non soltanto artistici: giacché Dallapiccola, con intransigente e spesso aspra ostinazione, ha rappresentato, nei percorsi accidentati e nelle eclettiche vicende della nostra epoca, un esempio di coerenza umana e spirituale.

La sua formazione, che così profondamente avrebbe inciso anche sulle scelte compositive, avvenne su due direttrici complementari: a una solida, appassionata educazione umanistica si unì col tempo, nel segno della musica, l’attrazione per la cultura europea; con una curiosità intellettuale favorita anche dal fatto di esser nato in una città di confine, tra culture diverse. Nella sua mentalità tanto iquieta quanto ferrata da una rigorosa autodisciplina, questo tardivo figlio della civiltà mitteleuropea trovò l’equilibrio per non disperdere, pur tra differenti interessi, la lucida coscienza della propria qualità di creatore, facendo del dubbio e della solitudine una molla dell’azione e dell’impegno. Trasferitosi a Firenze per continuare gli studi, Dallapiccola dovette sopportare incomprensione e ostilità, e perfino l’amarezza dello scherno: senza tuttavia minimamente mutare l’orizzonte della sua ricerca. Che, seppur assai avanzata, d’avanguardia non fu propriamente mai: dell’avanguardia rifiutando decisamente il gesto e la provocazione in quanto tali.

Erano gli anni difficili in cui una parola come dodecafonia, per lo più ignorata dai musicisti italiani, generava volgari storpiature, e la stessa rivalutazione della tradizione polifonica e strumentale del nostro passato, saldata con le acquisizioni linguistiche più moderne, era vista con sospetto nel Paese del melodramma. Assecondando la sua vocazione europea, frutto di scelte liberamente esercitate sui modelli della seconda Scuola viennese, Dallapiccola si affermò anzitutto all’estero, con la qualità ineccepibile delle sue opere: via via onorando, dopo averli oculatamente preparati, gli appuntamenti con la storia. Si realizzava intanto la conquista della coscienza umana e civile come contenuto dell’opera, culminante, dopo progressive messe a punto della tecnica e dello stile vocale e strumentale, nella prima, enigmatica prova teatrale, Volo di notte da Saint-Exupéry, e nei capolavori degli anni di guerra e di protesta, Canti di prigionia e Il Prigioniero: tappa decisiva, quest’ultima, anche sulla strada della adozione della composizione dodecafonica, che avrebbe caratterizzato tutta la fase matura dell’arte dallapiccoliana.

Che questa adozione significasse anzitutto una base su cui costruire, un baluardo asceticamente eretto su quell’abisso di vuoto e di disperazione che sembrava contraddistinguere tanta arte moderna, e che come tale costituisse anche uno “”stato d’animo””, un “”modo di essere”” a difesa di valori luminosi e positivi su cui operare, è ormai constatazione ovvia. A Dallapiccola premeva compiere, nell’unità del discorso musicale garantita dalla lingua base del metodo seriale, un’ininterrotta ascesa verso la luce, aperta sull’immenso; come nel tracciato della sua opera più complessa e ambiziosa, Ulisse, compendio singolare di suggestioni spazianti da Omero a Dante a Joyce, si rende addirittura dichiarato, all’infinito. Ma ancor più che nel marcato senso costruttivo dell’insieme, nell’ideale architettonico fissato da simboli e rimandi, corrispondenze e simmetrie, numeri e canoni, la qualità suprema dello stile di Dallapiccola si manifesta da un lato nella forza interiore del canto (un canto inteso come essenza dell’espressione, e dunque partecipe di una nostalgia di arcana purezza), dall’altro nell’amore sviscerato per il timbro, evidente nello splendore del suono luminoso, stellare.

Questa sensibilità di antico stampo artigianale, proiettata nella dimensione umanistica di un’arte impegnata, è tangibile testimonianza di fede in quei valori universali che alla musica è dato oggettivamente rivelare. L’insegnamento di Dallapiccola, nell’ostica bellezza dei suoi lavori, è infine anche questo: il dovere morale e artistico di vivere nel proprio tempo, di confrontarsi con la storia, non annulla la tensione verso la trascendenza, non annebbia la vista del futuro. Che non è solo nell’idolatria del linguaggio o della materia, ma nello spirito, nell’uomo padrone dei suoi mezzi e assetato di conoscenza.

 

Un’orribile cella nei sotterranei dell’Official di Saragozza: è il crepuscolo, quasi buio. Il Prigioniero, condannato a morte dal Santo Uffizio e in attesa del rogo, riceve la visita della Madre. Ella sa che vedrà il figlio per l’ultima volta: narra un sogno, nel quale Filippo, il re sanguinario, le è apparso nelle sembianze della Morte (prologo). Alla Madre che lo chiama a sé con angoscia, il Prigioniero, quasi perduto nei suoi pensieri, racconta un fatto che ancora lo turba: il Carceriere lo ha chiamato «fratello», e ciò ha risvegliato in lui la luce di una strana speranza, spingendolo a pregare con più fede. Rimasto solo, il Prigioniero è raggiunto dal Carceriere. Questi lo chiama nuovamente «fratello» e lo invita a sperare: le Fiandre sono in rivolta, la campana di Gand, Roelandt, scandisce con i suoi rintocchi i progressi della sollevazione dei Pezzenti! Sorpreso da questa rivelazione, il Prigioniero inneggia alla rivolta, vede come in un’improvvisa euforia il vento della libertà alata travolgere le pesanti catene della schiavitù: e a sperare lo inducono con più forza le parole del carceriere (prima e seconda scena dell’atto).

Quando il Carceriere è uscito, il Prigioniero si accorge che la porta della cella è rimasta socchiusa. Incredulo, si precipita a tentare la fuga; fra terrore e preghiera, quasi allucinato, scivola lungo le pareti di un interminabile sotterraneo popolato di presenze inquietanti e fantomatiche, fino a giungere all’aperto; l’aria fresca gli dà le vertigini, la luce delle stelle quasi lo abbaglia. Si crede ormai libero, nella sua esaltazione ora gli par di udire la campana della vittoria (scena terza). Al colmo dell’estasi, si avvicina al grande cedro del giardino della prigione e allarga le braccia in un impeto di amore per tutta l’umanità. Due braccia enormi, quasi nascoste fra i rami più bassi, lentamente si muovono e ricambiano la stretta. Il Prigioniero si trova fra le braccia del Grande Inquisitore in persona, nel quale riconosce con orrore la figura del Carceriere. Chiamandolo per l’ultima volta «fratello», costui lo apostrofa con agghiacciante dolcezza: perché mai voleva fuggire proprio alla vigilia della sua salvezza? Il Prigioniero finalmente comprende: la speranza non era che l’ultima e più atroce tortura a lui riservata prima della «salvezza» del rogo. Avviandosi alla morte guidato per mano dal Grande Inquisitore-Carceriere, il Prigioniero ripete come inebetito, con tono nettamente interrogativo, un’unica parola: «La libertà?»( scena quarta, ultima).

«Ero solo. Tutto era buio. Buio era in questa cella. Buio era nel mio cuore. No, non sapevo ancora di poter soffrir tanto e non morire…». All’apertura dell’atto ci si presenta con queste parole, pronunciate in tono apparentemente assente, «come continuando una narrazione», l’anonimo Prigioniero del dramma; dopo un prologo a sua volta interamente pervaso dallo sgomento, dallo strazio visionario di una figura materna di archetipica grandezza che ricorda, nel gesto pietrificato dall’angoscia, la Madonna piangente ai piedi della croce. Anche conoscendone l’argomento, addentrarsi nella musica dell’atto unico Il Prigioniero significa anzitutto varcare la soglia oscura del dolore, appena rischiarata da un barlume di speranza. E proprio muovendo dall’abisso della sofferenza e guardando alla luce della speranza che l’opera costruisce il suo percorso, toccando molte altre corde: prima fra tutte quella del tema della libertà, una delle linee-guida di Dallapiccola, del suo pensiero di artista e di lucido osservatore della storia. E in questo percorso, sospeso da ultimo su un interrogativo senza risposta, si rivela la natura morale dell””`impegno”” di Dallapiccola, sia nei suoi aspetti universali sia nei suoi legami con gli avvenimenti della storia contemporanea.

Uno sguardo alle date è già di per sé eloquente. E l’estate del 1939 quando il compositore s’imbatte a Parigi nel racconto La torture par l’espérance, uno dei Contes cruels di Auguste de Villiers de l’Isle Adam: ne resta impressionato e, nel viaggio di ritorno, comincia a riflettere sul suggerimento ricevuto dalla moglie Laura di ricavarne un lavoro teatrale. Il precipitare degli eventi ritarda l’attuazione del progetto ma non la sua necessità: un primo abbozzo del libretto, scritto dal compositore stesso, è pronto alla fine del 1943; la stesura della musica comincia nel 1944, l’anno stesso che vedrà la liberazione di Firenze, dove il musicista vive da più di vent’anni, e la nascita di sua figlia Anna Libera. «Erano gli anni – scrive Dallapiccola – in cui l’Europa, da tempo circondata da filo spinato, con ritmoognora crescente si riduceva a un ammasso di rovine».

Nel frattempo alla prima fonte se ne è aggiunta un’altra, la Légende d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak di Charles de Coster, che racchiude l’astratta idealità del lavoro entro riferimenti storico-narrativi precisi: la Santa Inquisizione spagnola del XVI secolo e la rivolta delle Fiandre contro Filippo II di Spagna, metafore non solo della tirannide d’ogni parte ma anche della guerra di liberazione contro l’assolutismo ideologico.

Terminata in partitura il 3 maggio 1948, l’opera viene eseguita per la prima volta in forma di concerto alla radio di Torino il 1° dicembre 1949 sotto la direzione di Hermann Scherchen e in forma scenica al Maggio Musicale Fiorentino il 20 maggio 1950, sempre diretta da Scherchen. Ne nascono violentissime discussioni e polemiche, sia da destra sia da sinistra, per lo più tendenziosamente inclini a leggere il libretto in termini di attualità politica; mentre i circoli cattolici non mancano di giudicare estremamente inopportuna la rappresentazione che vi è data dalla Santa Inquisizione. Ciononostante l’opera si afferma rapidamente all’estero per i suoi valori drammaturgici e musicali, iniziando un cammino trionfale che la porterà a diventare non solo l’opera più rappresentata di Dallapiccola ma anche uno dei capisaldi del teatro musicale novecentesco.

A questa qualifica, e senza nulla togliere ai contenuti dell’itinerario spirituale che essa racchiude, concorrono anzitutto due elementi: la straordinaria teatralità dell’articolazione drammatica e la perfetta unità della costruzione musicale nella varietà degli episodi che la costituiscono. Questa varietà va intesa in senso non soltanto architettonico ma anche tecnico-stilistico: ossia come alternanza di momenti lirici e drammatici, solistici e corali, vocali e strumentali in un quadro di corrispondenze simmetriche disposte concentricamente. Le sette parti dell’opera sono strutturate in modo che al Prologo corrisponda l’Epilogo, al Primo Intermezzo Corale un Secondo Intermezzo Corale, alla I Scena la III scena: lasciando isolata al centro la II Scena con l’Aria in tre strofe, che di tutto l’arco rappresenta non solo l’apice – il grande canto di libertà del Prigioniero alla notizia della sommossa nelle Fiandre – ma anche la cellula originaria dell’opera. Il percorso interiore del protagonista – dall’angoscia alla speranza, e dalla speranza alla definitiva chiarezza resa tuttavia enigmatica dall’irrisolto interrogativo finale – si fonda dunque su una presa di coscienza che rispecchia una situazione bloccata: eco di un confronto del Prigioniero con se stesso e con i grandi temi da lui rappresentati, prima ancora che dialogo con gli altri personaggi dell’opera, ossia la Madre da un lato e il Carceriere che si svela alla fine essere il Grande Inquisitore dall’altro (secondo la prescrizione del compositore, i due ruoli debbono essere sostenuti dallo stesso interprete). Questi temi, oltre che nei monologhi interiori del Protagonista, sono trattati, per così dire svolti e amplificati, dagli interventi corali che ne accompagnano la vicenda, e per i quali Dallapiccola sceglie la lingua latina della preghiera e della meditazione, religiosa e universale al tempo stesso.

Le astratte simmetrie formali di cui l’opera si compone sono sciolte nella assoluta integrazione delle forme musicali chiuse (vocali e strumentali: la Ballata della Madre nel prologo, l’Aria in tre strofe al culmine della seconda scena, i tre Ricercari durante la fuga del Prigioniero nella terza scena) in funzione di una continuità dell’azione che sembra quasi modellata sullo schema di un moderno thriller.

L’unità anche drammatica è garantita dalla severa disciplina dodecafonica, basata non soltanto sulle nervature interne del contrappunto ma anche sulle rispondenze intervallari della serie, costruite in modo da consentire la massima ampiezza della gamma espressiva, fino a inglobare le tensioni del canto. Tra le varie “”costellazioni dodecafoniche”” che sostanziano la partitura un rilievo particolare assume il ricorrente segnale di morte costituito dai tre accordi iniziali: un gesto di pretta efficacia drammatica, che si imprime nella memoria con la forza immediata di un appello simbolico. Dal primo di questi accordi deriva la serie fondamentale dell’opera, quella che lo stesso Dallapiccola individua come «serie della preghiera» e che accompagna le fasi della vicenda, affiancata dalle serie della «speranza» e della «libertà». Un altro motivo, anch’esso collegato ai tre accordi iniziali, simboleggia «Roelandt», la campana di Gand, e lo si ritrova pertanto sia nella seconda scena sia nell’ultima, al culmine dell’esaltazione per la libertà illusoriamente intravista. Queste indicazioni del

compositore rivelano un trattamento tematico ben caratterizzato nonostante il tessuto assai complesso delle elaborazioni e delle derivazioni, che si spingono non solo a tollerare bensì a richiedere scoperte relazioni tonali. Un esempio estremo di questa tendenza a risolvere con figure musicalmente pregnanti i nodi drammaturgici che vi sono sottesi si ha nell’inciso motivico che scolpisce la parola «fratello», vera chiave dell’opera, in modo affatto emozionante, indimenticabile: ogni suo ritorno sembra condensare in una formula magica quasi sottratta al divenire dell’azione l’ansia di libertà del Prigioniero, in una cosmica richiesta di appartenenza che rappresenta forse l’anelito più autentico nel suo cammino verso la speranza. Alle parole di solitudine che avevano aperto l’opera e che la chiudono, e all’interrogativo che la sospende senza risolvere, si oppone come un controcanto polifonico, anche nei momenti dell’illusione, la fede nella preghiera, con il richiamo della trascendenza. Ed è su queste parole che il dubbio del Prigioniero si placa, prima che la morte lo ghermisca: «Signore, aiutami a camminare. Così lunga è la via che mi pare di non poterla finire. Signore, aiutami a salire».

Roberto Abbado, Norbert Balatsch / Jane Thorner, Giuseppe Sabbatini, Cezary Stoch, Albert Dohmen, Antonio Pirozzi, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

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