Mozart l’incontenibile

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Alla Scala «Il ratto del serraglio»

L’opera debuttò nel 1782 e non convinse Giuseppe II

DieEntführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) è la prima opera composta da Mozart dopo il suo definitivo trasferimento a Vienna, nella primavera del 1781. Essa segna dunque l’inizio di quel decennio che vedrà Mozart sconvolgere e riplasmare il teatro musicale del suo tempo, nel duplice versante dell’opera tedesca e della commedia realistica a sfondo psicologico innestata sulla aurea tradizione italiana.

Può sorprendere che dopo il furore tragico dell‘Idomeneo Mozart accettasse la proposta di un Singspiel tedesco nel quale la musica dovesse venire a patti non solo con la convenzione della commedia parlata ma anche con un soggetto comico, vagamente fiabesco e alla moda orientale. Ma, a tacere del fatto che la commissione proveniva dal sovrintendente dell’Opera di Vienna, Gottlieb Stephanie, per il Burgtheater (dove l’opera andò in scena con grande successo il 16 luglio 1782), Mozart non era affatto contrario né alle mode né alle convenzioni: ben sapendo di essere in grado di rivoltarle a suo piacimento e vantaggio. Forse non si poneva ancora coscientemente il compito della fondazione di un’opera nazionale tedesca, ma la prospettiva di scrivere finalmente per un grande teatro della capitale, e per di più nella propria lingua, doveva esercitare un’attrattiva irresisibile, tumultuosa.

Nessun’altra opera di Mozart presenta un intervento insieme altrettanto capillare e massiccio, quasi frenetico, sulla stesura del libretto, che Stephanie aveva tratto da un dramma preesistente. Sono interventi che non mirano tanto a ottenere una impossibile unità drammaturgica (impossibile e inutile date le premesse: il genio di Mozart brillò sempre in questo calcolo di praticità) quanto a porre la musica, nelle sue alternanze di umori e tempi, al centro dell’azione. Non modificò perciò la trama assai lineare della vicenda, che doveva risultare semplice e chiara proprio nella sua dimensione di favola con scene a effetto, ma caricò la musica di una forza ideale capace di dare corpo e sostanza ai personaggi e alle situazioni. Così ogni personaggio viene isolato in una sua sfera individuale, di cui è espressione anzitutto lo stile di canto, differenziato nelle due coppie speculari degli innamorati: via primaria di definizione psicologica e sentimentale.

Quanto alle situazioni, queste si susseguono non secondo una logica in divenire, ma scavando dentro il modo in cui ogni personaggio vive una sua visione della realtà, continuamente contrapponendo ad essa una realtà virtuale, di emozioni agognate e sfuggenti, colte in un’attesa o in una decisione che sbloccherà l’attesa. Ed è in questi momenti sospensivi che l’azione procede quasi verticalmente, accumulando tensioni, squarciando orizzonti e abissi per preparare un punto d’incontro in cui il destino dei personaggi finirà per trovare la sua necessaria, coerente risoluzione. Ne consegue che l’opera è articolata sì in arie e forme chiuse, ma in modo che ognuna di queste si integri con le altre e ricomponga alla fine un quadro d’insieme perfettamente armonico. E se il delizioso vaudeville — che chiude l’opera inglobando la musica nobile e quella «alla turca» che fin dall’Ouverture erano risuonate contrapposte e apparentemente inconciliabili — è la cornice brillante che avvolge il quadro, il vertiginoso quartetto (n. 16) che precede lo scioglimento del lieto fine è il centro drammatico dell’opera, il luogo intimo d’incontro di solitudini che si affrancano nella pienezza di scelte superiori, dettate dall’amore o dalla rinuncia. In modo assai meno solenne che nel Flauto magico, con alata leggerezza, Mozart esprime un messaggio universale di fratellanza e di amore oltre la tragedia della solitudine e del dolore.

DieEntführung aus dem Serail non è la storia di un ratto, o rapimento, da un luogo estraneo e mostruoso, il serraglio in cui il Pascià Selim tiene rinchiusa la giovane Konstanze con l’ancella Blonde e il fedele servo Pedrillo rapiti dai Turchi: è piuttosto la storia di una liberazione dei tesori nascosti in un luogo dell’immaginazione e della fantasia, un gioco di svelamenti e rivelazioni fuori dalla logica della verosimiglianza drammatica. Intanto quel serraglio non è poi così sinistramente estraneo all’umanità e all’allegrezza, se da esso esplodono festosamente suoni mirabolanti come la musica alla turca con la sua strumentazione esotica di triangolo, piatti e grancassa, e il capo dei giannizzeri, Osmin, è un simpaticissimo furfante, pieno di scatti rozzamente isterici ma anche di slanci umoristicamente cordiali. La trepida malinconia con cui Belmonte, l’innamorato di Konstanze venuto per liberarla, si presenta nella sua prima aria è certo espressione dei suoi nobili sentimenti e della sua ansia, ma anche un retaggio eroico di antichi turbamenti e dubbi, che Mozart forse

associava proprio al concetto di civiltà, oltre che di tradizione. A questi, a tutti, in forme diverse ma con la stessa straripante inventiva, è dato in dono un elemento che invece manca al Pascià Selim: il dono generoso del canto. Selim non canta, parla soltanto: e dice cose equilibrate, buone e giuste, mostrando la sua magnanimità e la sua grandezza d’animo nel momento del perdono. Eppure a lui manca l’espressione trasfigurante del canto, il veicolo dell’anima. Questa mancanza è la sua condanna, il simbolo con cui Mozart afferma splendidamente la superiorità della screziata civiltà del cuore sulla saggezza pur autentica, a tutto tondo, della ragione.

Il ratto dal serraglio, nonostante i suoi squilibri drammaturgici, è un’opera intessuta di incanti, di tremiti e tremori, di rabbie e trasporti, di humour e tenerezza, di tristezza e gioia: poesia allo stato puro. E il mezzo per creare questa magica induzione di stati d’animo è la musica, nella sua combinazione di canto che si apre con la melodia all’altrimenti indicibile e di orchestra che incalza, definisce, contraddice, approfondisce, distingue, commenta: un’orchestra sempre palpitante e viva, ora sontuosa nei suoi ripieni sonori ora variegata nei suoi strumenti concertanti a gara. “Troppe note, mio caro Mozart”, commentò bonariamente alla prima l’imperatore Giuseppe II. «Solo quelle necessarie, Maestà», rispose il compositore. E avrebbe potuto aggiungere: solo quelle vere e giuste.

 

 

 “”Più rumore si fa, meglio è””

La lettera diretta al padre da Vienna il 26 settembre 1781, poche settimane dall’inizio della composizione del «Ratto del serraglio», è un documento del “”modus operandi”” vulcanico di Mozart. Ne riportiamo alcuni stralci.

 
L’opera incominciava con un monologo, e allora ho pregato il signor

Stephanie (il librettista) di farne una piccola arietta, affinché i due

(Belmonte e Osmin), dopo la canzoncina di Osmin, invece di chiaccherare tra loro, cantassero un duetto. La parte di Osmin l’abbiamo affidata al signor Fischer, che ha una voce di basso davvero eccellente (…); e bisogna approfittare di un uomo simile, soprattutto perché ha dalla sua tutto il pubblico di qui. Nel libretto originale questo Osmin ha da cantare quell’unica canzoncina e nient’altro, a parte il terzetto e il finale, e allora io gli ho dato un’aria nel primo atto e gliene darò un’altra anche nel secondo. L’aria (n.3) al signor Stephanie l’ho suggerita io da cima a fondo; e la parte essenziale della musica era già finita prima che Stephanie ne sapesse una parola. Qui troverà solo l’inizio, e la fine, che deve essere di buon effetto; l’ira di Osmin in questo modo volgerà al comico, perché la musica turca è adatta allo scopo. (…) Un uomo in preda a una collera tanto violenta oltrepassa ogni ordine, misura e limite, non si riconosce più, e allora anche la musica non deve più riconoscersi. Ma poiché le passioni, violente o no, non devono mai essere espresse fino al disgusto e la musica, anche nelle situazioni più orribili, non deve mai offendere l’orecchio, ma piuttosto dilettarlo e restare pur sempre musica, non ho scelto una tonalità estranea a fa, che è il tono dell’aria, ma una affine; non però quella più vicina, re minore, ma più lontana, la minore. (…)

Il coro dei giannizzeri è tutto quello che si può desiderare per un coro di giannizzeri: breve e allegro; scritto proprio per i viennesi. L’aria di Konstanze l’ho un po’ sacrificata all’ugola sciolta della signorina Cavalieri (Caterina, la famosa cantante). Non so che cosa abbiano in testa i nostri poeti tedeschi; anche se di teatro non ne capiscono, per quel che concerne l’opera quanto meno non dovrebbero far parlare i personaggi come se accudissero ai porci. (…) Veniano ora al finale del primo atto. Più rumore si fa, meglio è; più corto è, meglio è: così la gente non fa in tempo a raffreddarsi per gli applausi. (…)

Dell’ouverture troverà solo 14 battute. È brevissima, con una continua alternanza di forte e piano; e al forte riappare sempre la musica turca. Modula così da un tono all’altro, e credo che sarà impossibile addormentarsi, anche se si fosse trascorsa un’intera notte in bianco.

da “”La Voce””

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