Nel golfo mistico – Purcell a française. Dido and Aeneas, King Arthur

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Tante esecuzioni, poche sorprese. La riscoperta di “Didone” si è mossa tra il fantasioso pionierismo di Britten e l’algido minimalismo di alcune recenti versioni filologiche. Solo con William Christie l’inglesissima opera ha rivelato una curiosa parentela con Lully

Non mancano i motivi di interesse nella storia interpretativa di Dido and Aeneas, l’opera più famosa di Henry Purcell. Se Dido and Aeneas costituisce in assoluto il raggiungimento più alto che l’eroina virgiliana abbia ottenuto nell’intera storia del melodramma, è interessante ricordare come essa fu eseguita nel 1689 (in seconda esecuzione, ndr) per un ambiente apparentemente lontano dai fasti di corte nei quali Purcell pur operava, la Boarding school for young Gentlowomen a Chelsea. L’opera in effetti divenne un’accademia scolastica, della durata di un’ora, con le stesse ragazze impegnate come interpreti, a parte Enea e i coristi fatti venire da Westminster. L’ambiente era minuscolo ma fortemente elitario. E ciò consentì a Purcell, già carico di esperienze in ogni settore compositivo, di concepire ciò che è fuori di dubbio un melodramma di una espressività e di una drammaticità straordinarie, nonostante la cornice derivata dalla tradizione inglese del masque. Didone muore semplicemente d’amore, come si conviene a una eroina delle scene, e proprio in punto di morte c’è la sublimazione del suo amore. Amore e morte sono temi già nettamente presenti e profilati.


English opera

Per il suo carattere d’epoca e la particolarità della sua scrittura Dido and Aeneas è affrontato soprattutto da specialisti della musica antica. Ma non è sempre stato così. Si ricorda per esempio un’edizione del Festival of Britain del 1951 i cui motivi di interesse vanno individuati nella Didone maestosa e matronale della grande cantante wagneriana Kirsten Flagstad, allora cinquantaseienne, e nella freschezza vocale della giovane Elisabeth Schwarzkopf, impegnata in tre ruoli diversi, Belinda, lo Spirito e la Seconda donna. Il direttore Geraint Jones, adottando un’edizione assai rimaneggiata del musicologo inglese Edward Dent, utilizzava un ampio organico di archi in una visione intonata a una grandiosa enfasi romantica. Un primo pionieristico tentativo di maggiore ricerca stilistica fu compiuto dal cantante e studioso Alfred Deller, antesignano di una scuola che potremmo definire filologica. Furono però i musicisti, attratti dalle bellezze dell’opera al di là dei problemi posti da una versione autentica, a mantenere viva la fiamma negli anni del secondo dopoguerra. Tra questi un posto di rilievo spetta a Benjamin Britten, che l’eseguì nel 1959 al suo Festival di Aldeburgh. Basandosi su un’edizione da lui stesso curata, Britten aggiunse alcune delle musiche indicate da Purcell per ampliare la partitura, secondo una copia del libretto conservata al Royal College of Music. Per il resto l’esecuzione, testimoniata in disco nella collana della Bbc “”Britten the Performer””, offriva un curioso mélange stilistico con archi dal generoso vibrato ottocentesco, una fantasiosa realizzazione clavicembalistica del basso, introduzione di molte appoggiature non scritte nel canto, affidato alle voci non propriamente adatte di Claire Watson e Peter Pears. Le versioni di altri due direttori di scuola inglese, Anthony Lewis e Sir John Barbirolli, basate sull’edizione critica di Thurtson Dart, erano accomunate da angolazioni romantiche stilisticamente discutibili ma vivaci, teatrali e ricche di pathos. Tra le interpreti che si accostarono al personaggio della protagonista contemperando nature vocali d’altra estrazione ed esigenze di intensa compostezza stilistica spiccano in questi anni i nomi di Victoria de Los Angeles, Janet Baker e Tatiana Troyanos.

Nuovi passi in avanti sul piano filologico furono compiuti negli Anni Sessanta da Charles Mackerras. Adottando l’edizione critica di Neville Bowling il direttore introdusse nel primo atto due interludi per chitarra e corredò la fine del secondo atto con cori e danze tratti dalle musiche di scena per King Arthur, Timon of Athens e The Tempest: nel complesso l’ampiezza degli organici impiegati e la pesantezza del passo narrativo non differivano però granché dalle interpretazioni del passato. Analoghe osservazioni valgono per la lettura di Colin Davis, anch’essa basata sull’edizione Dart e condizionata da una visione piuttosto generica di gusto ottocentesco. Raymond Leppard, uno dei primi a interessarsi della musica antica da una angolazione che potremmo definire di fertile compromesso, fu anche autore di una propria versione di Dido and Aeneas destinata a rimanere in uso per molti anni, tra i Settanta e gli Ottanta. Riconsiderata oggi, essa offre una visione ormai superata del linguaggio barocco, pomposa ed enfatica; anche se la varietà dei colori, il senso del teatro e l’intensità drammatica restano avvincenti. Leppard non disdegnava affatto il contributo di protagoniste reperite tra le grandissime cantanti del tempo: fu così con Shirley Verrete in una esecuzione radiofonica realizzata a Torino per la Rai nel 1971 e con la scultorea Jessye Norman, tra l’altro presente nella incisione discografica per la Philips del 1985. Si deve a lei l’interpretazione più struggente e malinconica che si ricordi del celebre lamento finale.

Quante sono le filologie

Andrew Parrott e Nikolaus Harnoncourt furono i primi a impiegare organici ridotti di strumenti originali e a cercare di riprodurre le ipotetiche condizioni esecutive dei tempi di Purcell. Ne sortirono risultati diversi ma ugualmente affascinanti: la conquista di un clima sonoro delicato e trasparente, semplice e commovente, di tipo quasi adolescenziale, con Parrott; un taglio drammatico e fortemente contrastato da bruschi scarti d’umore, veemente e variegato, con Harnoncourt. Impostazioni che imponevano coerenza e immedesimazione anche nelle scelte vocali, più accurate e meditate. Si trattava però di una strada che presentava anche molti rischi, come dimostrano per esempio le scelte assai discutibili di un altro “”filologo””, Michel Corboz, con il quale gli strumenti antichi hanno un colore diafano e sbiadito e le voci una rigidezza aspra e invadente. Si giunge così a quello che può essere considerato senz’altro un punto di riferimento nella storia interpretativa del Dido and Aeneas, l’interpretazione di William Christie con il suo complesso Les Arts Florissants. Christie evidenzia fin dall’Ouverture le influenze francesi sulla partitura di Purcell, anteponendole a quelle italiane: il doppio punto sostituisce sempre il punto semplice nella realizzazione ritmica e le linee vocali sono abbellite alla maniera di Lully. L’organico orchestrale e corale è ridotto ma non impoverito e il basso continuo è realizzato sobriamente ma non inespressivamente dal solo clavicembalo. A un taglio scorrevole e limpido corrispondono sfumature poetiche morbide ed eleganti, perfettamente realizzate dagli interpreti vocali, per lo più francofoni e non di grande nome, ma tutti esemplarmente preparati dal punto di vista stilistico. Quella di Christie è dunque una versione che possiede al tempo stesso requisiti filologici e musicali, oltre a essere condotta con bella personalità.

La maggiore consapevolezza storica acquisita in tempi recenti nei confronti della musica barocca non è sempre garante di esiti adeguati. Deludenti sono le prove, minimaliste all’eccesso, di Trevor Pinnock e Ivor Bolton, i quali nell’intento di ricreare lo spirito intimo e raccolto della prima esecuzione avvenuta nell’educandato di Chelsea limitano appunto al minimo l’orchestra e il coro, con il risultato di essere freddamente inespressivi, fiacchi e poco drammatici. Particolarmente felice, a dimostrazione che la specializzazione non può comunque surrogare la statura musicale dell’interprete, è invece la visione di John Eliot Gardiner, che abbina rigore filologico, fantasia e sicuro istinto teatrale, ottenendo una resa estremamente accurata dai complessi da lui fondati, l’ottima orchestra (English Baroque Soloists) e il magnifico coro (Monteverdi Choir). Altri direttori che recentemente hanno conquistato notevole notorietà nel repertorio barocco sono Nicholas McGegan e soprattutto Christopher Hogwood, realizzatore fine, delicato ed elegante anche se a tratti un po’ accademico. Con loro si rafforza la schiera di interpreti coltivati ad hoc, specialisti di questo repertorio, ineccepibili sul piano stilistico e generalmente gradevoli, e di cantanti appropriati anche quando non svettano per specifiche doti vocali, ivi compreso il ricorso divenuto consueto ai controtenori. Gli ultimi anni non hanno aggiunto elementi di fondamentale importanza al percorso fin qui tracciato. Ricordiamo un’esecuzione diretta da Richard Hickox, niente più che professionale e poco motivata dal punto di vista interpretativo; mentre segnaliamo l’affacciarsi promettente in questo campo di interpreti italiani, come Alessandro De Marchi, che diresse scrupolosamente l’opera al Maggio Musicale Fiorentino del 2001. In attesa che qualche grande direttore particolarmente sensibile a questo mondo e capace di sintottizzatsi modernamente con questo siile (pensiamo a Claudio Abbado) non ci dia in quest’opera emozionante nuovi stimoli e nuove sorprese.

La contraddizione di Re Artù

King Arthur, la semi-opera in cinque atti su libretto originale di John Dryden (1691), non gode della stessa popolarità di Dido and Aeneas e stante la sua natura composita di opera e dramma dai molteplici registri non ha pari autonomia musicale. L’interpretazione musicale offerta da Purcell è collegata in sottile dialettica a momenti del dramma e non può prescindere dal testo; sicché va valutata nel contesto di uno spettacolo che affronti parimenti la parte scenica in un progetto globale di rivisitazione dello specifico carattere del genere a cui si riferisce. L’infinità di prospettive possibili tipica del teatro barocco non esclude tentativi di attualizzazione e di traduzione in epoca moderna: così fece Graham Vick in un celebre allestimento del 1995 allo Chatelet di Parigi, e così ha fatto Jürgen Flimm nel 2004 al Festival di Salisburgo, con esiti ancor più radicali. Il problema in questi casi è il rapporto tra un’invenzione scenica concepita secondo una sorta di meta-teatro che sfrutta tutti i mezzi multimediali a disposizione oggi e una musica che mantiene una sua austerità d’altri tempi, una sua aura e un suo sapore specialmente antichi. I direttori cercano di ritrovare questo spirito con edizioni filologiche correttamente fedeli, capaci di restituire l’autenticità e la freschezza di una musica che suoni al tempo stesso lontana e vicina. Protagonisti delle due succitate rappresentazioni sono stati rispettivamente William Christie e Nikolaus Harnoncourt, la cui autorità e la cui consapevolezza stilistica hanno fatto sì che la musica di Purcell non venisse soffocata dagli ammodernamenti, ma anzi ne risultasse arricchita dall’impiego degli strumenti antichi e da una rigorosa, sensibile prassi esecutiva. Accanto a quelli dominanti di Christie e Harnoncourt, la storia interpretativa del King Arthur è legata a nomi più o meno noti che hanno consuetudine con questo autore e che già abbiamo trovato a proposito di Dido and Aeneas: Deller, Gardiner, Leppard, Hogwood, cui vanno aggiunti almeno David Parry e Sigismund Kuijken, esponenti di una filologia un po’ arida, portata all’estremo. Vale anche in questo caso il discorso generale secondo cui Purcell necessita non soltanto del rispetto del testo originale e della cosciente prassi esecutiva ma anche di una qualità e di una sensibilità musicale all’altezza della sua grandezza.

 

Classic Voice Opera n. 22, Dicembre 2004 / Gennaio 2005

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