Nel golfo misticoPreludio e fuga. Lohengrin

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I direttori tedeschi l’hanno diretto alla fine della carriera; gli altri l’hanno utilizzato come via d’accesso al mondo wagneriano. Perché Lohengrin è l’opera di Wagner più “”italiana”” e più “”francese””. Dove bisogna assecondare le voci e la scena. Oltre a tenere le redini di un robusto filo sinfonico

Lohengrin non è un titolo di punta all’interno della produzione teatrale wagneriana. Non può competere sotto questo aspetto con Tristan und Isolde, Meistersinger, Parsifal, per non dire della Tetralogia dell’Anello del Nibelungo, che hanno una tradizione interpretativa più spiccata e consolidata, a Bayreuth e altrove. Ciò non toglie che moltissimi, se non tutti i più grandi direttori d’orchestra che hanno fatto la storia dell’interpretazione wagneriana si siano cimentati con questa partitura che chiude la fase romantica della creatività di Wagner, e annuncia i nuovi percorsi del dramma musicale vero e proprio. Spesso questi contatti sono stati il risultato di prove precedenti, come se al Lohengrin si giungesse per sottrazione, in un cammino a ritroso verso le radici della poetica wagneriana, dopo averne esplorato le regioni più estreme; in altri casi invece Lohengrin è stato la prima porta d’accesso verso il mondo wagneriano, una sorta di chiave che ne apriva tesori ancora nascosti, da riscoprire: e ciò è avvenuto soprattutto per i direttori non tedeschi, che in quest’opera trovavano molti addentellati con la tradizione operistica italiana e perfino francese, ossia con il melodramma e con il grand opéra, da un lato per la presenza di forme chiuse in cui il canto ha modo di espandersi solisticamente con grande effusione, dall’altro per la forte, massiccia invadenza dei cori e dei tableaux vivants.
Arie e romanze

Lohengrin non è un titolo di punta all’interno della produzione teatrale wagneriana. Non può competere sotto questo aspetto con Tristan und Isolde, Meistersinger, Parsifal, per non dire della Tetralogia dell’Anello del Nibelungo, che hanno una tradizione interpretativa più spiccata e consolidata, a Bayreuth e altrove. Ciò non toglie che moltissimi, se non tutti i più grandi direttori d’orchestra che hanno fatto la storia dell’interpretazione wagneriana si siano cimentati con questa partitura che chiude la fase romantica della creatività di Wagner, e annuncia i nuovi percorsi del dramma musicale vero e proprio. Spesso questi contatti sono stati il risultato di prove precedenti, come se al Lohengrin si giungesse per sottrazione, in un cammino a ritroso verso le radici della poetica wagneriana, dopo averne esplorato le regioni più estreme; in altri casi invece Lohengrin è stato la prima porta d’accesso verso il mondo wagneriano, una sorta di chiave che ne apriva tesori ancora nascosti, da riscoprire: e ciò è avvenuto soprattutto per i direttori non tedeschi, che in quest’opera trovavano molti addentellati con la tradizione operistica italiana e perfino francese, ossia con il melodramma e con il grand opéra, da un lato per la presenza di forme chiuse in cui il canto ha modo di espandersi solisticamente con grande effusione, dall’altro per la forte, massiccia invadenza dei cori e dei tableaux vivants. Non è questa la sede per discutere criticamente la pertinenza o meno di questi riferimenti: essi appartengono di fatto alla storia della ricezione soprattutto ottocentesca, quando le opere venivano di norma tradotte nella lingua del luogo in cui venivano eseguite, accreditando vie di più larga ampiezza, non precisamente idiomatiche, alla loro comprensione. Non c’è bisogno di ricordare qui che Lohengrin fu la prima opera di Wagner a essere conosciuta in Italia e a formare una tradizione esecutiva di pretta scuola italiana, in primo luogo favorita dai cantanti, che disponevano di cospicue occasioni favorevoli a mettere in luce le loro qualità vocali, magari tradendo, oltre alla lettera, lo spirito della musica: fatto è che alcuni luoghi della partitura nella famigerata traduzione di Angelo Zanardini divennero proverbiali al pari delle più famose romanze del melodramma. E ascoltarle al di fuori del loro contesto abitudine del tutto naturale. Nel Novecento queste abitudini si sono a poco a poco modificate, ma non sono state del tutto abbandonate prima dell’ultimo ventennio, quando il principio dell’opera in lingua originale ha messo piede stabilmente nei repertori di tutti i teatri del mondo, generando uno stile internazionale esportato da un capo all’altro del pianeta e buono per tutti gli usi. Pur non vecchissimo, sono abbastanza vecchio per ricordare esecuzioni del Lohengrin in lingua italiana ancora negli Anni Settanta, con cantanti italiani che passavano disinvoltamente dai ruoli del melodramma a questi wagneriani, assecondati da direttori, anch’essi italiani, talvolta tanto estranei allo stile quanto in possesso di una solida tecnica da routinier dell’opera. Uno di costoro, Alberto Erede, fu addirittura insignito dell’onore di essere invitato a Bayreuth per questo titolo (1968), e dopo di lui venne per più anni Silvio Varviso.
    A Bayreuth Lohengrin apparve per la prima volta nel 1894, dopo tutti i grandi drammi musicali della fase seconda della produzione di Wagner e dopo Tannhäuser (1891), ma prima di Der fliegende Holländer (1901). Nel golfo mistico il rito era officiato da Felix Mottl, per discendenza diretta uno dei più autorevoli direttori wagneriani (suoi erano stati anche il primo Tristan e il primo Tannhäuser a Bayreuth), mentre la messinscena era dovuta a Cosima Wagner. Negli anni successivi, prima che i titoli ammessi a Bayreuth venissero fatti ruotare con una certa regolarità (consuetudine poi rimasta nell’uso fino ai nostri giorni), Lohengrin fu ripreso appena nel 1908 (direttore Siegfried Wagner) e nel 1909 (ancora il figlio di Wagner in alternanza con Karl Muck). Si salta poi a piè pari al 1936 e ’37 (Wilhelm Furtwängler diresse le prime recite, per passare poi la bacchetta a Hans Tietjen), e di qui al 1953 (Joseph Keilberth), al 1954 (Keilberth alternato a Eugen Jochum), al 1958 (André Cluytens) e via via, a processo stabilizzato, a tutti gli altri: Lovro von Matacic, Ferdinand Leitner, Lorin Maazel, Rudolf Kempe e Wolfgang Sawallisch. Il resto è storia dei nostri giorni. Se Bayreuth è una cartina di tornasole della storia interpretativa wagneriana, a proposito proprio del Lohengrin si noteranno assenze importanti, significative, tra i direttori colà ospiti abituali negli anni d’oro dei festival prima della guerra e dopo la ricostruzione del dopoguerra: Karl Elmendorff, Arturo Toscanini, Victor De Sabata, Hermann Abendroth, Hans Knappertsbusch, Clemens Krauss, Herbert von Karajan, Karl Böhm. Alcuni di questi risulta che non abbiano mai diretto Lohengrin nella loro lunga e prestigiosa carriera, o almeno non ne abbiano fatto – è il caso di un  wagneriano di ferro e apparentemente predestinato come  Toscanini – un loro cavallo di battaglia.
    Fu ancora Keilberth, nel 1953, a darci la prima registrazione integrale, ufficiale, di un Lohengrin bayreuthiano, seguito da Wolfgang Sawallisch nel 1962: direttori, come il visionario Kempe, cui si associa nella memoria l’interpretazione più barbarica ch’io ricordi, a cui quest’opera deve molto (Sawallisch la diresse regolarmente nella sua splendida era monacense, e la presentò anche alla Scala nel ’65 e alla RAI di Roma) e che ne possono essere considerati a giusta ragione interpreti di riferimento ancora oggi. La diffusione del disco ha naturalmente colmato molte lacune (una su tutte: il diafano, lirico, purissimo Lohengrin di Karajan, purtroppo non sostenuto da cantanti all’altezza), consegnando anche questo titolo, nel frattempo diventato ovunque di semirepertorio, a una assidua frequentazione d’ascolto. Forse gli ha nuociuto, in parte per i motivi già detti, il fatto di essere, nel catalogo wagneriano prima della svolta, l’opera meno ideologicamente targata (lo è molto di più, se è per questo, Der fliegende Holländer) e quella nella quale è forse più difficile cogliere un segno stilistico unitario. Da una parte, se ciò la rende perfettamente eseguibile da direttori che non abbiano una statura interpretativa marcatissima o personalissima (come per esempio oggi Daniel Barenboim, ottimo nella sua resa “”artigianale””, sensibile, di questa partitura), d’altro canto si stenta a riconoscere in rapporto al Lohengrin uno statuto interpretativo d’alto profilo. Sbagliando, s’intende: giacché anche in quest’opera romantica, fin dal luminosissimo Preludio del primo atto, per non dire di quello arcinoto del terzo, di cui rimangono testimonianze parziali di forte spessore, al direttore si richiede la capacità non soltanto di assecondare le voci (che ne sono comunque l’asse portante) ma anche di tendere un robusto filo sinfonico in grado di passare dal mondo celeste di Lohengrin ed Elsa a quello notturno, aggrovigliato su se stesso, di Ortrud e Telramund senza soluzione di continuità, tenendo insieme le parti per così dire di raccordo per farle esplodere adeguatamente nei culmini espressivi e drammatici.
    Tra i direttori delle generazioni più giovani Lohengrin sembra invece riscuotere un notevole gradimento. Per un Riccardo Muti (e la si direbbe invece un’opera a lui congenialissima) e un Giuseppe Sinopoli che non l’hanno mai affrontata, ecco il memorabile, fascinosissimo spettacolo scaligero di Claudio Abbado in sintonia con una regia livida e spettrale, sconsolata, di Giorgio Strehler (per Abbado si trattava del debutto in Wagner: un esito musicale stellare), ecco la riproposta profondamente radicata nella tradizione ma di stringente, moderna consapevolezza di Christian Thielemann (l’interprete wagneriano oggi in ascesa), ecco, infine, la serissima, composta e convincente lettura di Daniele Gatti in un recente allestimento bolognese. L’attualità del Lohengrin sembra nuovamente incarnarsi da un lato nei custodi di una scuola interpretativa “”storica””, che guarda al passato e ne rinnova i fasti, dall’altro nella spregiudicatezza d’interpreti che si accostano alla partitura con occhi e mente liberi, traendone associazioni e conseguenze di straordinaria evidenza. Paradossalmente, Lohengrin sembra essere uno dei lavori di Wagner meno consegnati ai sigilli dei vertici intoccabili, più passibili di perpetuo rinnovamento e di riscoperta.                                
                  
   
 

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