Parigi e Vienna, Berio, Dallapiccola e Henze

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Musica d’oggi: itinerario, non villaggio globale

A Parigi, per il Festival d’Automne, Luciano Berio ha diretto tre delle sue composizioni più recenti, Canticum Novissimi Testamenti per otto voci, quartetto di sassofoni e quattro clarinetti, Calmo per soprano e strumenti, Ofanim per due cori di bambini e gruppi strumentali, elettronicamente elaborati in tempo reale. Risultato: l’Opéra-Bastille, che la sera prima era per un terzo vuota a una replica della Giovanna d’Arco al rogo di Honegger (nonostante dirigesse splendidamente Myung-Whun Chung e vi fosse il richiamo di Isabelle Huppert quale protagonista, splendida più di nome che di fatto), non presentava un sol posto libero, e mischiava a un pubblico anonimo di tutte le età, attentissimo, personaggi illustri come Pierre Boulez, Madame Pompidou, Umberto Eco, André Boucourechliev e quant’altri di cui mi sfuggono i nomi. L’impressione era che stessimo vivendo un momento importante della nostra vita, tutti assieme, e che Berio, con la sua presenza fisica non meno che con quella ideale come autore, fosse lì a dimostrare che la musica non ha età, e anzi che solo la musica di oggi può provocare un corto circuito immediato del cuore e della mente, senza residui e senza reticenze. Francamente non avrei barattato questa serata con una qualunque in cui fossero programmati Mahler o Puccini.

A Vienna, per la quinta edizione del Festival “”Wien modern””, creato e tuttora diretto da Claudio Abbado, l’obiettivo era puntato su Luigi Dallapiccola e su Hans Werner Henze. L’unico concerto diretto personalmente da Abbado (Piccola musica notturna di Dallapiccola, Keqprops di Xenakis, Primavera dell’anima di Paolo Perezzani, vincitore del concorso per una composizione nuova indetto dal Festival, interludi sinfonici dalle opere Boulevard Solitude e Die Bassariden di Henze) era esaurito fino all’ultimo posto, tanto da costringere a organizzare una prova generale aperta per la stampa e per i richiedenti in sovrappiù: dove, fra l’altro, dopo esecuzioni da cima a fondo, già perfette, si poteva assistere a ulteriori limature che aiutavano a entrare nei laboratori della composizione, alla presenza degli autori: e anche Dallapiccola, che non c’è più, era come se fosse presente nel rispetto con cui per esempio una violoncellista della Gustav Mahler Jugendorchester (la miglior orchestra giovanile oggi pensabile) chiedeva al direttore di poter ripetere la sua parte, per trovare la sonorità e il fraseggio giusti in un passo siderale di quella meravigliosa pagina. Roba da stropicciarsi gli occhi, credendo di sognare. Il concerto monografico dedicato da Gianluigi Gelmetti (in forma grandiosa) e dalla Orchestra sinfonica della Radio di Stoccarda (che suona benissimo, ma non importa: in Italia rischierebbe comunque la chiusura) a lavori recenti di Henze non aveva un pubblico altrettanto compatto: tale comunque da stravincere ogni confronto con qualsiasi concerto di musica contemporanea offerto in Italia (ed era il terzo della giornata, più l’incontro con l’autore, seguito nel pomeriggio da moltissimi; siccome era un venerdì, qualche obbligo per altre occupazioni aveva legittimamente il suo peso).

Tutte le esecuzioni alle quali abbiamo assistito erano di primissima qualità ed hanno avuto una accoglienza favorevolissima: al punto che era quasi impossibile distinguere a chi andassero le preferenze. Dallapiccola, per esempio, ha riscosso un interesse formidabile proprio per l’individualità e la coerenza della sua ricerca, esaltata dai confronti ravvicinati con la sua produzione nella storia del Novecento; ma l’accoglienza del pubblico si collocava per così dire al di là di una frontiera: quella dell’accettazione e della familiarità con i linguaggi e le prospettive della cosiddetta nuova musica. Ciò deve farci riflettere, e soprattutto farci evitare pericolose generalizzazioni. La storia della musica del Novecento e di quella contemporanea in particolare – in essa comprendendo sia Berio che Dallapiccola ed Henze, che pure appartengono già ai classici non solo della nuova musica – si confronta anche sul piano della ricezione con circostanze che hanno radici nella civiltà, nella cultura e nella organizzazione dei singoli luoghi e delle diverse tradizioni: niente è più falso che riconoscervi i tratti livellati del villaggio globale. E lo stesso vale per le singole e diverse personalità: ciò che separa Berio da Dallapiccola, e Xenakis da Henze, è più importante della appartenenza a un segmento di epoca comune. Naturalmente, affinché questi riconoscimenti possano avvenire è necessaria non tanto una disponibilità generica a riflettere (o viceversa una negazione a priori) quanto una frequentazione continua con le opere e con gli autori. E perché ciò funzioni, la spinta deve avvenire dal basso (ossia dal contatto continuo e ripetuto col pubblico) e non essere imposta, per qualsivoglia ragione, ideologica o commerciale, dall’alto.

Sta tutta qui la differenza tra il nostro Paese e gli altri. E se Parigi ha sempre fatto caso a sé, “”Wien modern”” ha dimostrato che anche una città per antonomasia conservatrice può aprirsi alla musica del nostro secolo dalle basi storiche alle ultime propaggini dell’attualità. In ciò riconoscendo un cammino di continuità necessario, che non esclude né il passato né altre forme d’arte più leggere. Certe opposizioni, del resto, vengono a cadere in Berio, che intona testi biblici originali o ripensati folgorantemente tra fede e miscredenza con i gesti e gli accenti delle nostre comuni espressioni (colte? serie? leggere? scherzose? in ogni caso, nostre in toto); e perfino in Henze, che ritrova il suo equilibrio e la sua identità prendendo di petto, con orgogliosa ostinazione pari a vigile autocritica, la condizione precaria e desolata dell’uomo contemporaneo. Quanto a Dallapiccola, lo riscopriremo se sapremo adattare i nostri tempi e i nostri spazi, le nostre tensioni e le nostre attese, a misure di più ampio respiro, a suoni di più intima vibrazione: osando di nuovo alzare lo sguardo al cielo, alla luce delle stelle. Come pensare che tutto ciò non ci appartenga? E da ultimo. Non v’era niente di spettacolare in quello a cui abbiamo assistito. Nessun secondo fine, nessuna intenzione sottintesa. La musica si offriva con la sua verità, con la sua qualità, quella che il compositore aveva saputo raggiungere, com’è sempre stato, con i suoi dubbi e le sue rivelazioni. Con il suo linguaggio, che ai più non parve sembrare ostico o irraggiungibile, e le sue forme, tendenti alla compiutezza, anche se con percorsi più avvolgenti che lineari. C’era tensione, e insieme concentrazione. Senso di una partecipazione, più frizzante ed eccitata a Parigi, più calma e quasi malinconica a Vienna. Solidarietà. Calore umano. Sfida e ricompensa. Disagio, anche, ma spinto a risolversi in conquista. Non nella lontananza del tempo, ma nella realtà del nostro presente. Ci colpì d’improvviso, più volte, l’impressione di sentire e di pensare attraverso la musica. La musica di Berio, di Dallapiccola, di Henze. E ne provammo – sono certo di non sbagliare – gratitudine.

Musica Viva, n. 12 – anno XVI

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