Parigi riscopre il puro Wagner

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Allo Châtelet un grande allestimento

Semplicità nella regia di Strosser, rigore nella direzione di Tate, una compagnia di canto impeccabile


Parigi –  Complimenti allo Châtelet, teatro musicale di Parigi. Il quale, mentre la megagalattica Opéra-Bastille di Stato agonizza tra scioperi e caos, allestisce nientemeno che un nuovo Anello del Nibelungo di Wagner, con esiti assai convincenti alla partenza: L’oro del Reno e La Walkiria, cui seguiranno, in autunno, Sigfrido e Crepuscolo degli dei, prima del ciclo completo nell’arco di una settimana.

Niente di dissacrante, e soprattutto niente di dimostrativo. La concezione di Pierre Strosser, regista e scenografo, è di estrema semplicità. Si riparte da Appia e da Wieland Wagner per coniugare senza effetti straripanti naturalismo e simbolismo, sotto il segno unificante della musica. Scena nuda, né dipinta né costruita, immensamente vuota, caratterizzata da pochi oggetti necessari alla rappresentazione e animata dalla luce, con tonalità dal bianco ghiaccio al grigio-nero. Niente Reno che scorre all’inizio (un baluginio basta a evocarlo, il resto lo fa la musica), niente rocca del Walhalla, solo uno squarcio che spezza la simmetria della scena impedendo la vista sull’orizzonte delle utopie. E soprattutto niente elmi, corazze, corna e cavalli: abiti vagamente ottocenteschi intesi come pura convenzione, mirati appena a stabilire gerarchie esteriori, di facciata, tra dei, nani, giganti e uomini. Tutto si concentra sulla recitazione, finalmente figlia di un lavoro di regia non ideologizzante, e sullo scontro di destini cui la vastità del palcoscenico disadorno conferisce tragica grandezza. Eroismo della vanità e vanità dell’eroismo, dramma di solitudini e di illusioni, permeate però di sentimenti e di azione: davvero il mondo come volontà e rappresentazione. Con qualche tocco, nei momenti culminanti, di vero teatro: vedi il grande velo rosso che in un estremo gesto di pietà ammanta Brunilde nell’incantesimo del fuoco dopo l’addio di Wotan.

Musicalmente le cose vanno benissimo. Jeffrey Tate si rivela, in grado perfino insospettato, direttore finissimo, capace di narrare ed evocare con forza e intensità. L’Orchestra Nazionale di Francia deve aver lavorato a lungo e con passione; fatto sta che suona con slancio e precisione. Ma la carta vincente è da ultimo la compagnia di canto, composta tutta di voci importanti, possenti: ed è un po’ come tornare ai tempi in cui Wagner era anzitutto uno strepitoso sconvolgimento del canto, a piena voce. Sarebbero tutti da citare e da lodare; impossibile non ricordare almeno Robert Hale (Wotan), Peter Straka (Loge) e Nadine Dazine (Fricka) nell’Oro del Reno; Sabine Hasse (Brunilde), Karen Huffstodt (Sieglinde), Jyrki Niskanen (Siegmund) e Sergej Koptchak (Hunding) nella Walkiria. Servita con fede, umiltà e impegno, la Tetralogia torna a essere coinvolgimento ed emozione, senza limiti e senza confine. Possesso stabile, non attuale.

da “”La Voce””

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