Quando l’amor cortese diventa erotico

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«Il godimento nel sacrificio, l’affinamento morale nell’adulterio, l’esaltazione nel segreto»; non sono le tre regole di una concezione libertina e dissoluta dell’amore, presa a modello e divulgata da tanti sceneggiati televisivi d’oggi, ma i cardini fondamentali di un sistema di valori saldamente organizzato che risale a molti secoli fa, e che prende il nome di «amor cortese»: cosi si presenta per la prima volta nella lirica dei trovatori, poco dopo l’inizio del secondo millennio. «Gaia scienza», l’avrebbe chiamata in un’epoca già di decadenza un’unione di poeti costituitasi a Tolosa nel 1323; e ad essa si sarebbe rifatto ancora Friedrich Nietzsche, per celebrare il rinascere dei «saturnali di uno spirito, che ha resistito pazientemente a una oppressione lunga e terribile». Ma già un suo omonimo, Schlegel, aveva riscoperto in quei testi medievali scritti nella lingua della Francia del sud, il provenzale, addirittura le «fonti della poesia romantica»: saltando a piè pari non solo i suoi piú lontani antenati tedeschi, i Minneslinger, ma anche gli esempi piú noti di un’influenza diretta in tutta Europa, come per esempio da noi Dante e Petrarca.

Vecchi ricordi di scuola, offuscati da un’idea in fondo non troppo esauriente di che cosa in realtà si celasse dietro quell’espressione «amor cortese». Paradosso poetico, certo, ma anche specchio di una civiltà nella quale i due termini si definiscono a vicenda in modo apparentemente ambiguo: se l’amore rappresenta le pulsioni e le ebbrezze dell’individuo, in che modo la corte, ossia la società attorno ad essa costituita, rende possibile il desiderio del piacere amoroso e lo realizza? Che non si trattasse solo di sublimazione poetica, come il perbenismo delle scuole di un tempo ci aveva fatto pudicamente credere (ma sarà ancora cosa?), lo apprendiamo da una raccolta di testi appartenenti, per riprendere la definizione del suo curatore, Giuseppe E. Sansone, alla «sezione rubrica del trobadorismo»: ossia liriche di quei poeti che, assai piú che semplicemente «licenziosi», come li indica il titolo, presentano un ricco campionario di sconcezze e grevità, di descrizioni erotiche e di iperboli sessuali, nel piú perfetto rispetto del formalismo stilistico.

E’ un cammino «verso la scortesia» che comincia, senza perifrasi, con la precisa distinzione di tre livelli di prestazioni: va bene il servizio d’amore, a norma della fin’amor, casto e devoto; ma, si aggiunge subito dopo a scanso d’equivoci, «Del corteggiar non sa poi tanto / chi vuole aver la donna intera: / non c’è servizio andando ai fatti, / né dando il corpo in ricompensa». E andando ai fatti è dunque giusto pretendere che la donna «non faccia discussioni / quando si toglie blusa e gonna, / ma ch’ella danzi giusta musica / di chi non bada che d’amore / s’evitin giochi piú golosi: / e s’ella piú ne avesse appresi, / nell’ammaestrare che non esiti!». Evidentemente questo bel tipo di trovatore, Daude de Pradas, era piú che disposto ad ampliare le sue cognizioni oltre la poesia. E molti, che nella raccolta a lui seguono, dimostrano di averimparato a iosa la lezione.

Naturalmente non si va a leggere questi componimenti per il semplice gusto della descrizione salace. A poco a poco l’occhio corre di preferenza al testo originale piú che alla traduzione a fronte, quasi per cogliere, della lingua provenzale, l’articolazione e il suono, la mirabile tornitura delle rime e delle strofe. E al musicista non è impossibile immaginare una melodia d’accompagnamento che nasca direttamente dal ritmo interno della poesia, un canto piano e scorrevole impegnato dei suoi raffinati umori, del suo profumo penetrante. A dimostrazione che con qualsiasi contenuto quella dei trovatori era anzitutto poesia formale (nel senso non riduttivo del termine), parola inscindibile dal canto: e piú latamente mestiere, spettacolo, evento sociale, se non gioco e variazione di bravura. Forse è lecito non essere del tutto d’accordo con Sansone quando rileva che in questo piccolo corpus poetico, «nel quale si gioca, inverecondamente e talora paradossalmente, con i piú sfrenati nomi del sesso», sono del tutto assenti una reale morbosità e una vera libidine. Ma non importa.

Certo è che in questa metafora rovesciata dell’amore come passione concreta e diretta vi è la stessa cura del canto di lode nobile e raffinato, simbolico e astratto, della poesia cortese. E per suggellarne gli esiti bastano le contraff azioni parodiche in calce al volume, nelle quali anonimi giullari capovolgono il senso di alati omaggi di famosi trovatori mantenendone intatto l’assetto stilistico e il formalismo poetico: irriverenti, ma pieni di talento.

 
Giuseppe Sansone, (a cura di), «I trovatori licenziosi». ES, pp. 157, lire 28.000

da “”Il Giornale””

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