Richard Strauss – Vier letzte Lieder (Quattro ultimi Lieder)

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Un sereno congedo dal mondo

 

Se con Till Eulenspiegel Strauss aveva suggerito che vivere è un piacere, con i Quattro ultimi Lieder ci mostra quanto è dolce perfino il morire, quando tutto sia stato detto. Ed effettivamente, nei cinquantatré anni che separano il giovanile poema sinfonico dal capolavoro estremo, Strauss poteva pensare di aver detto tutto quanto aveva da dire. Aveva egli stesso attraversato la gioia e il dolore mano nella mano con la sua musica, nella storia e nel mito; ora non restava che riposare nella pace profonda del tramonto. Sarebbe tuttavia sbagliato vedere nei Quattro ultimi Lieder una rinuncia alla vita: essi sono piuttosto un sereno congedo dal mondo ogni passione spenta, la trasfigurazione di un distacco irreparabile che pone in dubbio la realtà stessa dell’evento.

La composizione dei Quattro ultimi Lieder ebbe inizio subito dopo la fine della guerra, dopo l’abbandono di Garmisch e l’esilio coatto in Svizzera. Che Strauss non pensasse da principio di farne un ciclo, né tantomeno che l’ordine di successione dovesse essere quello che conosciamo dall’edizione uscita postuma nel 1950, è provato dal fatto che la stesura di Im Abendrot, abbozzato già tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 e terminato in partitura il 6 maggio 1948 a Montreux, precedette le altre, e che dunque un poeta tanto caro a Strauss quanto lontano dall’attualità come Joseph von Eichendorff (1788-1857) attirò la sua attenzione prima che la conoscenza delle liriche di Hermann Hesse (1877-1962) lo spingesse a completare il lavoro. Il secondo Lied in ordine di composizione fu Frühling (18 luglio 1948, a Pontresina): seguirono, rispettivamente il 4 agosto e il 20 settembre dello stesso anno, sempre a Pontresina, Beim Schlafengehen e September. Strauss morì prima di poter ascoltare la sua opera, che venne eseguita per la prima volta all’Albert Hall di Londra il 22 maggio 1950 da Kirsten Flagstadt e Wilhelm Furtwängler.

Sappiamo in realtà poco della genesi dei Quattro ultimi Lieder, come se Strauss, dopo averli battezzati “”die letzten””, “”gli ultimi””, stentasse a parlarne, e non per motivi scaramantici. Aveva dichiarato di considerare l’opera Capriccio come il suo testamento, e che un testamento non si poteva scrivere due volte. “”Esiste qualcosa di più perfetto di quest’opera?””, aveva anche aggiunto; dal suo punto di vista, probabilmente no: eppure aveva continuato a comporre. L’inafferrabilità dell’uomo, che era stata una costante della sua vita, sembra acuirsi negli ultimi anni per lasciar spazio solo ai ricordi e alla parvenza della musica.

Ritornando dopo trent’anni di teatro al Lied con orchestra, il vecchio Strauss affina all’inverosimile la capacità di interpretare con il canto le suggestioni di testi pregni di profondi significati emotivi, che la musica però alleggerisce e sospende in una dimensione di sogno, sprofondandoli mollemente in un tessuto orchestrale tanto sontuoso quanto evaporato: solo raramente, nonostante il dispiegamento massiccio dell’organico, usato in modo corposo. La dimensione cameristica è la vera dimensione di quest’opera: ottenuta via via togliendo e trasformando una pienezza originaria in struggenti frammenti di un addio. Sotto questo profilo non sono tanto i testi in sé a offrire l’impressione di un malinconico epitaffio, quanto lo svanire della musica sul soffio delle parole e delle immagini.

Il tono crepuscolare si manifesta come clima dominante dell’opera fin dall’inizio, nella visione di una primavera che filtra da volte senza luce, attirando teneramente a sé con la sua presenza miracolosa. L’iridiscenza dell’orchestra, che rende l’immagine di una perenne instabilità, sembra provenire da un altro mondo: ma la voce riafferma, con la sua linea melodica luminosa e salda, la bellezza di una sensazione vissuta. Questo clima si rispecchia anche nel Lied seguente, dove l’immagine dell’estate morente si colora di un’estenuata stanchezza, che a poco a poco diviene quasi simbolo di attesa della morte, dolcissimamente evocata dal corno.

Il terzo Lied, Beim Schlafengehen, sviluppa questi motivi ma introduce anche una nota di consolazione, che dopo l’esitante inizio della melodia sulle oscure sonorità di violoncelli e contrabbassi si trasferisce dalla voce al canto del primo violino solo contrappuntato dai corni.

“”Molto tranquillo””, scrive Strauss: quasi a voler così rassicurare e placare un’inquietudine fattasi ormai troppo opprimente. Sarà poi la voce a dirci il destino più profondo dell’anima, volteggiando coi suoi aerei arabeschi nei cieli dell’assoluto. Così, l’accordo a piena orchestra che apre con un improvviso sussulto l’ultimo Lied del ciclo segna, nel passaggio da Hesse a Eichendorff, un mutamento di prospettiva, un’ascesa verso l’ignoto riconosciuto e desiderato: nessuna paura del nulla nel tramonto, nessuna nostalgia o tristezza, ma solo una fede serenamente consapevole dell’immortalità dello spirito nella conciliante simbiosi con i suoni della natura. E quando alla fine il poeta chiede ansiosamente se sia forse questa la morte, il corno risponde citando il motivo della trasfigurazione che sessant’anni prima, nel poema sinfonico Tod und Verkldrung, il giovane musicista aveva opposto all’idea della morte. Ed è davvero la fine che si compie nel cerchio magico della notte.

 

 

QUATTRO ULTIMI LIEDER

 

PRIMAVERA

In volte oscure sognai a lungo

i tuoi alberi e la tua aria azzurra,

il tuo profumo e il canto degli uccelli.

Ora ti schiudi splendida e adorna davanti a me,

circonfusa di luce come un prodigio.

Mi riconosci, mi attiri delicatamente.

Tutte le mie membra tremano

per la tua beata presenza.

 

SETTEMBRE

Il giardino è in lutto,

fresca la pioggia cade sui fiori.

L’estate rabbrividisce

andando incontro silenziosa alla sua fine.

 

Gocce d’oro di foglia in foglia

cadono giù dall’alta acacia,

l’estate sorride stupita ed esausta

nel sogno morente del giardino.

 

A lungo ancora presso le rose

si attarda, anelando al riposo.

Lentamente chiude i grandi

occhi divenuti stanchi.

 

ANDANDO A DORMIRE

Ora sono stanco del giorno,

accolga la mia brama ardente

amichevolmente la notte stellata

come un bambino stanco.

 

Mani, smettete ogni azione,

fronte, dimentica ogni pensiero,

tutti i miei sensi ora

vogliono sprofondarsi nel sonno.

 

E l’anima, incustodita,

vuole librarsi su libere ali,

nel cerchio magico della notte

vivere profondamente mille vite.

 

NEL TRAMONTO

Attraverso la gioia e il dolore

siamo andati, mano nella mano,

ora riposeremo del peregrinare

sulla terra silenziosa.

 

Attorno declinano le valli,

già l’aria si oscura,

solo due allodole si levano,

sognando la notte tra i profumi.

 

Vieni qui e lasciale frullare,

è quasi tempo di dormire,

per non smarrirsi

in questa solitudine.

 

O pace vasta, silenziosa,

così profonda nel tramonto.

Come siamo stanchi di peregrinare –

è questa forse la morte?

 

(Traduzione di Sergio Sablich)

Zubin Mehta / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
60° Maggio Musicale Fiorentino

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