«Rinnoviamo i contemporanei»

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Sul tavolino del salotto della suite d’albergo londinese che lo ospita Maurizio Pollini tiene tre libri: la Recherche di Proust (in francese), il Gattopardo e un’edizione bilingue delle tragedie di Shakespeare. Sembra fatto apposta per confermare l’immagine di musicista intellettuale che di lui spesso ci è stata data, magari con connotati “impegnati”; ma in realtà il clima è quello di un normale pomeriggio verosimilmente destinato, dopo le prove, allo svago della lettura: come cosa naturale.

L’aura che circonda Pollini quando suona il pianoforte contrasta singolarmente con il suo modo di comportarsi in privato, di una naturalezza incantevole. Resta, quella sì, la forza immediata della personalità, che si trasmette anche nella semplicità dei modi, nella tensione dei silenzi, nella spontaneità del sorriso.

Alla domanda se davvero le interviste lo disturbino, dato che di solito ne concede pochissime, Pollini risponde che, al contrario, gli è sempre piaciuto parlare di musica.

Che cosa cambia di volta in volta nel lavoro con i direttori d’orchestra?

«È chiaro che facendo musica ci si influenza reciprocamente. In partenza ognuno ha le proprie idee, ma nel momento in cui il confronto si attua nella pratica avviene in modo molto misterioso uno scambio di sensibilità. Sono fenomeni strani, che non si possono generalizzare. L’elemento reale del fare musica insieme, concretamente, è molto più importante delle parole che si possono dire prima o dopo. Per questo mi trovo bene con quei direttori che evitano il superfluo e schivano ogni retorica».

Uno dei direttori con cui anche discograficamente ha lavorato di più è stato Karl Böhm. Che ricordo ne ha oggi?

«Böhm aveva un senso dello stile magnifico, una chiara concezione del suono, dell’architettura formale. Ne apprezzavo la profonda serietà musicale, l’esperienza e la grande semplicità. Il gesto forse non era chiarissimo, ma sapeva ottenere dall’orchestra quel che voleva: ricordo che una volta a New York il suono dell’orchestra cambiò dopo una sola prova, divenne il suono di Böhm e basta. Sapeva trasmettere alle orchestre un grande entusiasmo e creare l’atmosfera giusta. Ho un bellissimo ricordo del mio lavoro con lui. E del resto anche di Karajan, così diverso da lui, personalità assolutamente straordinaria, di un carisma eccezionale».

Mi tolga una curiosità. Recentemente Lei ha eseguito il Concerto K 595 di Mozart sotto la direzione di Vladimir Ashkenazy. Che effetto Le ha fatto suonare diretto da un pianista?

«Avevo sentito in una registrazione Ashkenazy suonare questo Concerto e le sue idee mi avevano interessato molto. Così, quando mi ha chiesto di suonare con lui, gliel’ho proposto. È stata un’esperienza positiva, direi che abbiamo realizzato quello spirito intimo e cameristico che in questi Concerti, e nell’ultimo in particolare, è essenziale. La fusione completa tra solista e direttore rimane un ideale, ma neppure i Concerti di Mozart possono prescindere dalla figura di un direttore».

Non pensa che la critica abbia frainteso, in ogni senso, il significato della sua esperienza come direttore d’orchestra?

«Non ho mai pensato di diventare un direttore d’orchestra. A un certo punto ho voluto fare delle esperienze che arricchissero il mio bagaglio di interprete, anche uscendo dal repertorio. In questo senso La donna del lago che ho fatto a Pesaro è stata un’esperienza molto particolare, per certi aspetti paradossale: si trattava di affrontare il Rossini serio e di lavorare sull’edizione critica».

È importante ascoltare gli altri interpreti?

«Più che importante è necessario. Ma non esiste solo il pianoforte: ascoltare opere, sinfonie, musica da camera, confrontarsi con le idee di altri interpreti impegnati in altri campi, tutto ciò è fondamentale».

Ritornerà a cimentarsi nella musica da camera?

«In primavera farò il Quintetto di Schumann a Firenze e Milano. Quello della musica da camera non è solo un repertorio dal quale nessun musicista può prescindere: direi che ogni concerto, ogni pezzo dovrebbe essere preparato nello spirito della musica da camera».

Lei è stato uno dei pochi che nell’anno del bicentenario della morte di Mozart si è quasi astenuto dal banchetto.

«Ho eseguito alcuni Concerti di Mozart, come ho sempre fatto. Non è certo una ricorrenza a farci scoprire Mozart. Se Lei si riferisce alle Sonate, è vero, ultimamente non le ho eseguite; ma solo perché il repertorio pianistico è talmente vasto che impone delle scelte. Comunque ammetto che in Mozart la mia passione per i Concerti è superiore».

Nei suoi programmi anche discografici Chopin ultimamente è tornato ad avere un posto di primo piano, come agli inizi della sua carriera. Perché poi l’aveva abbandonato?

«Non l’avevo abbandonato, anzi, il mio interesse, il mio entusiasmo per Chopin è andato sempre aumentando. Diciamo che la sua straordinaria popolarità ce l’ha fatto amare un po’ di meno, ma questa non è colpa sua!».

Con Beethoven Lei ha cominciato dalle ultime Sonate, e solo poi si è accostato via via sempre di più alle prime, in previsione, credo, anche di un ciclo completo di incisioni.

«Sì, una delle intenzioni è questa. In principio ero attirato naturalmente dalle ultime Sonate, un enigma di proporzioni gigantesche, un’apertura più che la conclusione di uno stile; comprese le Diabelli, forse l’opera più avanzata verso gli ultimi Quartetti. Nell’ultimo periodo la forma-sonata diventa un poco meno importante di prima. Ma le prime Sonate sono più ricche di quanto si pensi di anticipazioni straordinarie. I movimenti lenti sono un miracolo storico. Parlare di “prima maniera” qui mi pare addirittura insensato».

Con Schubert invece Lei ha seguito un cammino più progressivo, che culmina con le ultime tre Sonate.

«Già nel primo Schubert, nei Lieder, vi è un sentimento malinconico sorprendente. Ciò si acuisce negli ultimi anni, con la sensazione autobiografica della morte che sta per arrivare, senza tuttavia che si affermi in modo assoluto una visione tragica. Credo che la nostra idea di Schubert sia ancora oggi limitata: nello Schubert operistico, per esempio, si manifesta un elemento drammatico che non è tipico secondo la visione tradizionale, ma che può essere colto anche nelle altre composizioni, e ciò apre nuove possibilità e prospettive. In Schubert vedo grandi contrasti, non solo malinconia. La musica di Schubert ha una grande dimensione nel tempo, far seguire questo arco della composizione è essenziale. Solo l’ultima Sonata è più chiara, meno contrastata; e apre soluzioni la cui portata possiamo solo intuire. Con la morte di Schubert finisce il grande ciclo della musica viennese».

Ma Lei ha dimostrato che in un certo senso con Schoenberg il discorso continua, in una dimensione che riguarda il nostro stesso rapporto con la storia.

«Solo quando i pezzi di Schoenberg e della sua scuola saranno divenuti popolari si dimostrerà in tutta la loro grandezza la loro posizione nella storia. E perché diventino popolari occorre che siano eseguiti, che acquistino sempre più spazio nella nostra vita e nella nostra coscienza musicale. Questi grandi momenti storici debbono essere in qualche modo assimilati per poter apprezzare anche la musica d’oggi. Non si può né scrivere né ascoltare musica senza tener conto che certe correnti della musica radicale sono esistite in ogni tempo, e che in una prospettiva più ampia la nostra nozione dei classici è legata proprio a queste svolte. È stato il destino di tutte le opere avanzate del passato quello di non essere immediatamente comprese. Solo alcuni erano in grado di capire le ultime opere di Beethoven. Se c’è della qualità nella musica ogni difficoltà dev’essere superata: che ciò avvenga spesso è solo una questione di attenzione e di tempo».

In che misura il pubblico oppone resistenza? Le è capitato di sentire il concerto come una sfida, per esempio quando suona le Variazioni di Webern, i pezzi di Stockhausen o di Boulez?

«Quello col pubblico è un rapporto che si crea sera per sera, perché ogni pubblico è diverso e l’esperienza si rinnova e cambia costantemente. Anche in presenza di una musica difficile o ardua la sensazione in me predominante, in generale, è quella di cercare di farla capire. Farla capire, non “passare”. Perciò non parlerei di sfida. Da parte del pubblico occorre disponibilità, e solo con l’esperienza si cementa la conoscenza. Non è detto che il pubblico ideale sia un pubblico silenzioso e formalmente attento. Un elemento di tensione nel rapporto col pubblico c’è sempre. Anche il mondo poetico di un pezzo conosciutissimo deve ricrearsi ogni volta e non è un fatto automatico: il pubblico può avere sempre una resistenza, anche la distrazione è una resistenza, per esempio la distrazione di alcuni».

Carlos Kleiber, in un impeto di sincerità, ha spiegato che la sua proverbiale ritrosia deriva da una obiettiva difficoltà a ricreare ciò che la musica gli dice: l’immagine ideale rispetto a quella reale.

«Credo di capire ciò che Kleiber, musicista di sensibilità straordinaria, vuol dire: è la forma assoluta della musica “immaginata” sulla partitura. Per un direttore d’orchestra, che non dispone di uno strumento diretto, la musica immaginata può esistere; per un pianista è diverso. La musica immaginata dà una soddisfazione immensa a ogni musicista; ma nella realtà la musica si rivolge essenzialmente a un pubblico. La presenza del pubblico dà significato alla nostra vita, è l’unica funzione in quel momento».

Come vede, in un’epoca di trasformazioni profonde come la nostra, la situazione della musica contemporanea?

«Non sono pessimista sul futuro del pianoforte. Da tempo sento dire che il pianoforte è morto. Finora i fatti hanno smentito queste previsioni pessimistiche, i migliori compositori contemporanei hanno scritto molto per il pianoforte scoprendo cose nuove, sonorità nuove. Sono invece pessimista se parto dall’osservazione di ciò che sta accadendo, per esempio dal fatto che purtroppo una parte della musica nuova non trova alcuno spazio. Indubbiamente c’è stato un allargamento del pubblico, si è ampliato il numero delle società di concerti, ma ciò non ha portato a una crescita qualitativa ma semmai a una standardizzazione: mancano nella programmazione musicale idee fresche, la musica contemporanea è assente, si chiede di rifare sempre le stesse opere, manca una spinta di rinnovamento. Credo che questo sia il compito che ci attende negli anni prossimi».

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