Dalle Musikalische Exequien di Heinrich Schütz fummo folgorati, letteralmente, allorché Sergiu Celibidache, nel concerto inaugurale della nuova sala della Philharmonie a Monaco, le eseguì accanto alla Quinta Sinfonia di Anton Bruckner. Era il 1985, l’anno delle ricorrenze straordinarie della musica europea, con i giubilei tricentenari di Bach, Haendel e Scarlatti: pochi si accorsero che sarebbe bastato spostare lo sguardo indietro di un secolo esatto, al 1585, per trovare la data di nascita di un compositore non meno imponente, saettante come il suo cognome Schütz, appunto, il “Sagittarius”.
Un recente disco ripropone (in un’esecuzione di minore terribilità drammatica ma indubbiamente attendibile filologicamente) le Musikalische Exequien di Schütz, insieme a una scelta di Mottetti in stile polifonico concertante e a due brani tratti dalle raccolte dei Piccoli concerti Spirituali, per soli e organo, rispettivamente del 1636 e del 1639; e conferma, o svela, al di là dei meriti storici riconosciuti, l’eccellenza di un compositore che dalla diversità degli stili della sua epoca seppe creare un linguaggio unitario di prepotente personalità, tanto spettacolare quanto spoglio nell’impiego dei mezzi, e carico di una tensione assoluta. Un musicista ossessionato dal tema della morte, e tuttavia capace di trasfigurarlo in un messaggio di speranza, di salvezza eterna, per sé e per altri.
Le Musikalische Exequien si compongono di tre parti.
La prima è un Concerto nella forma di una messa funebre tedesca, su versetti biblici, con avvicendamento di soli e coro a cappella; è anche la più ampia e varia negli accenti, oscillante fra un tono oratoriale di statuaria nobiltà espressiva e mossi episodi di concentrata intensità, che sembrano nascere dalla parola e farsi purissima melodia. Segue un Mottetto per doppio coro, che intona l’orazione funebre dapprima nervosamente, per distendersi poi progressivamente, in un clima di crescente opulenza sonora, nella pace di una fede salda e luminosa. Si sfocia così nella terza e ultima parte, il Canticum Simeonis, genialmente costruita sulla contrapposizione di un coro a cappella a cinque voci con un coro di solisti a tre voci, raffiguranti rispettivamente “gli amici in terra” e “le anime beate sciolte dal corpo”: in modo non dissimile (e perfino sulle stesse parole “Selig sind die Toten”) da come farà Brahms nel suo Requiem tedesco, guardando a Schütz con la reverenza che si deve ai grandi predecessori. E con la stessa tragica malinconia, con lo stesso stupore di fronte al religioso mistero della morte.
Quest’opera singolare fu commissionata a Schütz nel 1635 da Heinrich Reuss Posthumus, principe di Gera, Schleiz e Lobenstein con Plauer, con l’intenzione di servirsene per le proprie esequie; insieme a una bara di stagno nella quale egli volle che fossero incise le parole della Bibbia da lui stesso scelte per esser musicate dal compositore: a perpetua memoria, e per compagnia eterna.
Schütz lo ripagò con un lavoro di ispirata concentrazione, nel quale l’ardimento delle soluzioni linguistiche, non ignare delle tecniche più diverse e nuove, si scioglie in canto commosso, interiorizzato, profondamente vero: quasi voce dell’anima che si materializzi in suoni, in aerei contrappunti, in nudi accordi, in pregnanti melodie, per attingere la grazia e giustificare il destino umano; senza però dimenticare mai, e farci sentire, quale peso comporti accettarne individualmente l’enigma, nei dominii dello spirito, là dove la gioia brilla nella rinuncia e nel superamento della sensualità, della bellezza stessa della musica.
Ed è con la coscienza di questa ambiguità che noi ascoltiamo oggi la musica di Schütz, come se provenisse da un altro mondo, lontano e forse irraggiungibile nella sua misura, nel suo equilibrio, nella sintesi di dottrina e invenzione che governa il suo ordine: inattuale, inattingibile, ma proprio per questo necessario, e caro quant’altri mai, una volta entrati nella sua sfera.
L’esecuzione della Chapelle Royale diretta da Philippe Herreweghe non osa fino in fondo spalancare queste porte. Un che di frigido, di troppo oggettivo ed esatto, forse soltanto un’eccessiva correttezza di stile in sé lodevole, impediscono di abbandonarsi appieno alla sublime eloquenza della musica. Neppure i sacri principi della prassi esecutiva originale possono convincerci della rinuncia all’espressione, al rischio di sbagliare interpretando. E il pensiero corre a Celibidache, che nella avveniristica sala della Philharmonie, adatta a ben altre prospettive, ci sgomentava, rivelando Schütz, le sue esequie musicali, e toccandoci nel vivo.
Schütz, Musikalische Exequien, Mottetti, Piccoli Concerti Spirituali; La Chapelle Royale, dir Herreweghe, Harmonia Mundi HMC901261 (1 lp).
Il giornale della musica, n. 30, luglio-agosto 1988