Sergio Sablich
Ingmar Bergman, Il fabbricante d’immagini

S

Nota di Marina Sablich:

Era forse il coronamento di un sogno, questo libro purtroppo non finito su Ingmar Bergman, che sarebbe stato pubblicato dalla stessa casa editrice che nel 2004 aveva pubblicato il libro su Dallapiccola, L’EPOS.  L’Editore, Biagio Cortimiglia, che qui desidero ricordare e ringraziare di cuore per la fiducia e l’affetto che lo legavano a Sergio, ci ha autorizzati a pubblicare sul sito, così come li abbiamo trovati, tutti i testi del libro. Di alcuni capitoli esiste purtroppo solo il titolo, altri sono invece completi , così come  sono  ben delineati  l’indice e  l’impostazione del libro. Dai documenti, sembra che Sergio abbia iniziato a scrivere  il libro nel 2002, altri articoli sono datati ottobre, dicembre 2004.  In attesa di ritrovare informazioni più precise, abbiamo inserito le date di dicembre 2004.

Indice e Introduzione dell’Autore:

1. Il dinosauro
2. La poetica
3. Fedeltà coniugale: il teatro
4. Neorealismo scandinavo
5. Le commedie d’autore
6. Nuove frontiere
7. La tetralogia del silenzio
8. I paesaggi della metafisica
9. Faccia a faccia con la vita
10. Altre scene di vita
11. L’addio al cinema
12. Opere postume
Conclusione
Filmografia
Bibliografia

Consegna prevista: estate 2004

Questo volume intende esplorare in forma sintetica, per tematiche e tendenze, la vita, l’opera e la personalità del regista cinematografico e teatrale svedese Ingmar Bergman, figura di spicco nel panorama dell’arte contemporanea. La ricca bibliografia esistente, anche di lingua italiana, ha infatti già trattato ampiamente la figura di Bergman sotto l’aspetto analitico, senza tuttavia porsi il traguardo di una visione d’insieme che, partendo dalle realizzazioni, collocasse il fenomeno Bergman in un quadro unitario rispetto alle problematiche che vi sono sottese: dal punto di vista sia dei temi ricorrenti sia delle forme d’espressione. Osservando anche i rapporti con le altre arti – la letteratura, la pittura e la musica – l’autore ha voluto ricostruire dalle fondamenta, autobiografiche e storiche, il complesso e stratificato mondo di Bergman, leggendolo come lo specchio di una tormentata introspezione personale che coinvolge però anche alcune delle tendenze più significative dell’arte contemporanea e le sviluppa in senso quasi emblematico con i mezzi “”moderni”” del cinema e del teatro. Il “”fabbricante d’immagini”” Ingmar Bergman rappresenta così uno spaccato e, per quanto possibile, una risposta alle domande e alle inquietudini che attraversano la nostra epoca, di esse fissando con la macchina da presa i contenuti sfuggenti dopo averne individuato i molteplici risvolti.

Sergio Sablich, critico, musicologo e organizzatore musicale, è stato assistente di Ingmar Bergman al Bayerisches Staatsschauspiel di Monaco dal 1978 al 1981. Ha recensito numerosi suoi spettacoli teatrali per “”Il Giornale””, “”La Voce””, “”Musica Viva”” e “”Diario””.

1. Il Dinosauro

Testo e Appunti

A ottantacinque anni felicemente raggiunti e superati, Ingmar Bergman ci appare come il grande dinosauro del cinema e del teatro contemporaneo. La metafora del dinosauro, che sa di nostalgia e di provocazione, è stata usata da lui stesso per definire uno stato d’animo della sua tarda età, sul quale tuttavia non giureremmo, dato che Bergman, personaggio a torto considerato serioso e scostante, si è sempre divertito a proporre di sé un’immagine fittizia, mascherata e ironica. La sensazione, se di questo si tratta, di essere un fossile, un reperto archeologico sorpassato dai tempi e consegnato agli archivi della storia contrasta con la lucidità con cui egli continua a vivere nel proprio tempo, interessandosi a tutto ciò che accade intorno, fors’anche in misura maggiore di una volta. Nel rifugio isolato che si è scelto molto prima che la vecchiaia incombesse, quella specie di “”villaggio Bergman”” che costituisce, accanto alle scabre bellezze naturali, la principale attrattiva della piccola isola di Faro sperduta nel mar Baltico, egli non ha mai smesso di lavorare, di raccontare scrivendo il proprio diario dei ricordi e delle rievocazioni, di seguire le vicende del cinema e del teatro, di aggiornarsi sulle nuove tecniche di recente scoperta e impiego. Un uomo vitale nonostante gli acciacchi dell’età, che accetta di buon grado quelle interviste alle quali una volta si sottraeva, per parlare non solo del passato ma anche dei mutamenti della nostra epoca, intervenendo nel dibattito sui problemi del suo Paese, quella Svezia verso la quale non è mai stato tenero ma lontano dalla quale non è mai riuscito a trovarsi bene, e sulle prospettive della cultura e della società mondiale. Certo, ogni volta che Bergman parla o scrive viene ascoltato con la deferenza che si riserva a un grande vecchio; ma se egli si sente un dinosauro, bisognerebbe ricordargli che i dinosauri sono tornati di moda proprio ai nostri giorni.
Del dinosauro ha la grandezza e l’imponenza, fors’anche l’aura mitica. Che sono però il risultato di un’opera che si è accumulata nel corso di oltre sessant’anni di lavoro e che costituisce un monumento d’arte imperituro: nel teatro, nel cinema, per la radio, per la televisione, nella letteratura. L’istinto, la curiosità, l’esperienza, unite a un talento artistico innato che fiutava gli orizzonti della modernità, lo portarono a occuparsi di quei mezzi di comunicazione che presto sarebbero diventati di massa: soprattutto il cinema, quella sorta di arte universale che varca le frontiere nazionali e politiche e che unisce le immagini alla parola, il fascino del movimento e la sovranità del silenzio. Nel quadro di quest’arte, Bergman è arrivato alla sua fama non eguagliando gli altri, ma rimanendo se stesso.
La psicologia insegna che le esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza esercitano un influsso determinante sulla formazione della personalità in generale, e su quella dell’artista in particolare. Ernst Ingmar Bergman è nato a Uppsala il 14 luglio 1918, che era una domenica, secondo figlio di Erik Bergman, pastore luterano, e di Karin Akerblom, di origine olandese, assistente sociale. La famiglia materna, benestante a differenza di quella paterna, cosa che non aveva mancato di creare qualche resistenza al matrimonio, possedeva un appartamento spazioso e confortevole a Uppsala e una casa delle vacanze in campagna, presso Dufnas, in Dalecarlia: entrambe le case e la figura della nonna, assai amate, furono punti di riferimento importanti nell’infanzia del piccolo Ingmar detto Pu, e diverranno ripetutamente materia di rievocazione autobiografica nei suoi film e nei suoi romanzi. Dopo alcuni spostamenti da un paesino all’altro, il pastore fu assegnato come titolare alla parrocchia di Hedvig Eleonora nel cuore di Stoccolma, dove egli già aveva prestato servizio come vicario. La famiglia si trasferì allora nell’appartamento del parroco, al terzo piano di Storgatan 7, proprio di fronte alla chiesa. Ebbe così inizio un periodo di relativa stabilità e tranquillità, durante il quale Ingmar crebbe frequentando la scuola a stretto contatto con l’esercizio quotidiano del ministero paterno, assorbendone i riti e le abitudini e covando un’irrequieta ostilità nei confronti di ogni forma di autorità, in ambito non solo familiare.
Nei suoi scritti autobiografici Bergman si è soffermato più volte, con un misto di lui assai tipico di repulsione e di comprensione, a descrivere l’ambiente familiare della sua infanzia. Verso il padre si istituì un rapporto assai aggrovigliato di amore, odio e ammirazione, che non teneva conto, almeno allora, della personalità alquanto complessa del pastore tanto abile e misurato nella cura delle anime quanto rigido e insicuro nell’amministrare se stesso.

Citazione sul padre

Alla madre, che non rappresentava l’astioso principio di autorità,  Bergman fu legato da un attaccamento quasi morboso, fatto di complicità e di comprensione, che tuttavia non aveva molte occasioni di esprimersi con tenerezze ed effusioni e che non impedì che si venisse a creare una dolorosa frattura, ricomposta soltanto in età adulta e acutamente sofferta nel rimpianto dopo la sua morte.

Citazione sulla madre

Fin dalla sua infanzia, che ebbe momenti molto felici, Bergman mise in luce un atteggiamento ribelle, una fantasia sbrigliata (che sviluppava leggendo instancabilmente, giocando con la lanterna magica e con il teatro delle marionette), una sensibilità acutissima: tratti che aveva in parte ereditato dai genitori, ai quali aveva aggiunto di suo con il passaggio all’adolescenza una strana incapacità di venire a patti con le regole del mondo degli adulti, una interiore, paralizzante irrequietezza, una predisposizione all’evasione e al sogno,  e un bisogno disperato di amore.
Dopo la maturità e il servizio militare Bergman si iscrisse a un corso universitario di Storia della letteratura (nel corso del quale ebbe modo di approfondire la lettura di Strindberg) e cominciò a occuparsi di teatro amatoriale, dapprima in un centro per la gioventù della vecchia Stoccolma, poi nel teatro studentesco. Il teatro lo attirava sopra ogni cosa, proprio per la possibilità che esso offriva di reinventare la realtà e di sostituirle una finzione che superava largamente la realtà stessa. Furono anni di scapestrata vita bohèmienne, di alcol e di avventure erotiche secondo il cliché dell’artista maledetto, nei quali si consumò la rottura definitiva con la famiglia e la fuga dalla casa dei genitori, che non frequentò più per quattro anni. Durante questi anni salì qualche gradino nella scala della sua missione teatrale, riuscendo a lavorare con attori professionisti in uno studio drammatico e organizzando spettacoli per bambini nel centro sociale del Comune. Partecipò anche a una tournée nel sud della Svezia con una compagnia di attori, ma l’accoglienza fu catastrofica (diciassette spettatori al debutto) e la compagnia si sciolse. Bergman, che nel suo metodo di lavoro fu il prototipo del maestro della disciplina e dell’ordine più meticolosi, rievocherà con nostalgia questo apprendistato assai avventuroso di scalcinati pionieri del teatro in diversi momenti della sua carriera artistica.
Nel xxxx Bergman fu assunto al Teatro dell’Opera di Stoccolma dapprima come assistente alla regia volontario, poi con l’incarico di suggeritore stipendiato. La musica, dopo il teatro di prosa, fu dunque la seconda esperienza formativa della sua evoluzione, e anche questo aspetto non mancò di dare frutti copiosi come influenza nella sua attività di autore e regista. Anche se a quel tempo lo interessavano soprattutto le ballerine, con cui cominciò a flirtare in assenza di attrici, l’apparato spettacolare dell’opera (e del balletto) costituì un ampliamento nella sua nozione di teatro. Se avesse compiuto studi musicali, sarebbe probabilmente diventato un direttore d’orchestra, modello al quale spesso si riferirà per illustrare le sue funzioni di regista. Con i primi compensi, si sentì spinto a tentare di scrivere per il teatro e sfornò in breve tempo dodici drammi e un’opera. Uno di questi, una smaccata imitazione di Strindberg intitolata La morte di Kasper, venne allestito dal teatro studentesco e visto da Carl Anders Dymling, neodirettore della Svensk Filmindustri in cerca di nuovi talenti, e da Stina Bergman, vedova del famoso drammaturgo Hjalmar Bergman e responsabile della sezione manoscritti. Fu lei a convocare e ad assumere Bergman con il compito di correggere le sceneggiature, scrivere i canovacci e i dialoghi dei film che sarebbero poi stati sottoposti alla produzione. Bergman aveva 24 anni. Per la prima volta nella sua vita aveva un posto fisso, un buon stipendio, una scrivania, un orario di lavoro. Le allegre tribolazioni erano finite, cominciava una dura ma positiva gavetta. Riprese i contatti con la famiglia, in un clima più disteso di neutralità armata e di reciproco rispetto.

La biografia alimenta la leggenda del dinosauro.
Teatro= vocazione, cinema=conquista

2. La poetica

Testo

Il Nord. La luce delle stelle silenziose e dell’aurora boreale. Le fragole che maturano sulla sponda di mille laghi, cullate dalla cupa melodia delle foreste profonde. Il mare spazzato dal vento nel crepuscolo di notti e giorni interminabili. E si potrebbe continuare all’infinito. La sequela, in sé forse poetica, di luoghi comuni che collegano la figura umana e artistica di Bergman al paesaggio della sua terra contraddistingue come un segno distintivo la sterminata bibliografia che lo riguarda (nota?). Non si tratta di negare queste ascendenze, quanto semmai di collocarle in una giusta prospettiva. L’uomo venuto dal Nord per conquistare con la sua visione il mondo intero non è solo il cantore solitario di un ambiente caratteristico da scuola nazionale – come non lo sono in musica Grieg e Sibelius – ma un artista che guarda e sente le proprie radici aprendosi alla riflessione e alla critica. In altri termini, la provenienza nordica di Bergman non è un elemento tematico, ma semmai un dato formale che si rispecchia nella ricerca di una forma e di un contenuto artistici. Da questo punto di vista forse il solo di questi elementi che denota un tema e lo sviluppa intrinsecamente è la luce. Quella luce alla quale egli, nella sua Lanterna magica, dedica per definirla ben aggettivi (ma evidentemente altri se ne potrebbero aggiungere): “”…””.
Lo stesso discorso si potrebbe fare per le ascendenze letterarie, poetiche e filosofiche. Anche qui, sarebbe inutile negare l’importanza di autori formativi per la personalità di Bergman – per così dire il suo orto da coltivare – ma a patto di non considerarli in senso teorico o, peggio, astratto. Rilevare l’influenza di pensatori come Kierkegaard o Swedenborg, di scrittori come Strindberg, Ibsen o Hjalmar Bergman nel suo percorso formativo di autore, significa poco o nulla. Ciò può valere al massimo per il teatro, dove peraltro, come vedremo, lo spazio di riferimento è assai più esteso, o per il Bergman scrittore e drammaturgo, vale a dire per una parte che concerne il ricreatore, non il creatore in senso stretto di opere cinematografiche. L’importanza di Bergman in questo campo non sta nei temi, ma nel modo in cui essi sono svolti. E nel vissuto che li permea e li determina. Si vuol dire insomma che la grandezza di Bergman non sta nell’aver trattato tematiche “”tipicamente nordiche””, ma nell’arte suggestiva delle immagini che le impregnano di forza creatrice fino al limite del caratteristico e dell’individuale. Sotto questo profilo il segreto di Bergman sta nell’immagine che può afferrare e captare, mediante l’atmosfera, un’idea o un’azione. E ciò vale anche per l’azione che penetra nelle profondità dell’animo umano, per mostrare e rivelare i segreti della sua vita interiore. Far uscire dalla loro prigione le forze oscure che albergano in ciascun animo umano, captare con la macchina da presa questi drammi nascosti: ecco la vera forza di Bergman, il cuore della sua poetica di fabbricante d’immagini.
Più che innestare la sua poetica su cardini climatici o ideologici, occorrerà dunque investigarne i presupposti nelle esperienze che la formarono, per seguirne poi gli sviluppi nella fisionomia personale ch’essa assunse da un certo momento in avanti: giacché è indubbio che una volta chiaritasi in se stessa la sua poetica divenne un mezzo di riconoscimento e di conferma, una sorta di costante continuamente approfondita e ribadita. Approfondita e ribadita, giova ripetere, non sul piano dei contenuti, ma su quelli dell’espressione formale e stilistica. Da questo punto di vista si può affermare che la poetica di Bergman è il suo stile. E a determinare il suo stile concorsero in primo luogo esperienze precise nell’ambito della cinematografia e del suo mondo.
Non bisogna dimenticare che Bergman incominciò a lavorare nel cinema partendo dalla gavetta, prima come sceneggiatore, poi come apprendista e aiuto praticante. Solo in un secondo momento entrò in scena come regista e come autore (da ultimo perfino come produttore), compiendo passo dopo passo tutto il cammino alla conquista, anzitutto tecnica, della propria autonomia e indipendenza. Da quel momento fu egli stesso a stabilire una norma che, per quanto non imitata (non esistono sulla sua scia cineasti di scuola bergmaniana), si propose come un fatto assolutamente individuale e riconoscibile (tratto fondamentale di uno stile è di poter essere riconosciuto in quanto tale, come cifra esclusiva di un autore). Ora, alla base di questo percorso sta il fatto di essere cresciuto a stretto contatto con la cinematografia del suo Paese (e con le aperture che dal suo Paese si estendevano alla produzione europea e mondiale, specialmente alla Francia e agli Stati Uniti), da essa per così dire succhiando il latte materno della sua conoscenza del cinema. Ed è dunque nel cinema svedese dagli anni Venti ai Quaranta che si trovano le esperienze formative della sua poetica. (Verrebbe perfino da ipotizzare che molti dei temi poi riconosciuti come “”tipicamente bergmaniani”” nascessero all’origine filtrati da questo contesto anziché da letture o influenze di pensiero astratte.)
Il panorama del cinema svedese degli anni in questione è assai più variegato di quanto si possa pensare. Una delle sue caratteristiche è il numero elevato delle produzioni (la principale casa di produzione, la Svensk Filmindustri, aveva avuto le sue origini nel lontano 1905 e da allora aveva sfornato film di ogni genere in gran quantità), l’elevato livello dello standard medio (con alcune vette non isolate) e il carattere per così dire autoreferenziale, perfino autodidattico (nella primitività dei mezzi e delle condizioni, nell’ingegno dei talenti) di queste produzioni, grazie al quale il cinema svedese costruì con cura e precisione un prodotto che era essenzialmente “”suo””. Un importante contributo in questo senso venne, prima ancora che dai registi, da pionieri della fotografia come Charles Magnusson e Julius Jaenzon (entrambi celebrati da Bergman), che divennero assai presto – già negli anni Dieci – anche produttori di film in proprio e figure fondamentali dell’industria cinematografica. Magnusson fu direttore di produzione di tutti i film dei due grandi classici del cinema svedese, Mauritz Stiller e Victor Sjöstrom, e Jaenzon ne fu l’operatore. Fu grazie a questi registi (le vette) che lo stile svedese raggiunse la sua sintesi. Essa scaturiva da due fonti principali: il teatro, con la sua tecnica confinata nei teatri di posa dalle pareti fisse di fronte a una macchina da presa immobile; il reportage cinematografico, con la macchina da presa in movimento per cogliere il ritmo, i dettagli significativi, il paesaggio, gli animali e la natura in senso sia descrittivo sia lirico, lavorando poi in sede di montaggio e di edizione. Quando si giunse alla conclusione che la tecnica cinematografica poteva essere usata per trattare soggetti di alto valore letterario e con profonda caratterizzazione dei personaggi, lo stile svedese raggiunse la sua sintesi.
Mauritz (Mosche) Stiller (Helsinki 1883 – ) era un ebreo russo di origini tedesche, approdato in Svezia per sfuggire al servizio militare. Apertasi la strada come regista di un piccolo teatro sperimentale a Stoccolma, entrò nel cinema per ragioni economiche, scoprendo presto che il cinema si confaceva la suo talento assai più del teatro. Fece in tutto trenta film, tra i quali l’avanguardistico De svarta maskerna (La maschera nera, 1912) e il suo incomparabile capolavoro Herr Arne’s Pengar (Il tesoro di Arne, 1919), al quale collaborò il futuro regista (e maestro di Bergman) Gustav Molander. In seguito avrebbe avuto tra i suoi attori anche Greta Garbo. Ispirato alla pittoresca leggenda di Selma Lagerlöf (premio Nobel per la letteratura nel 1909), Il tesoro di Arne è un film spettacolare e inquieto di ambientazione rinascimentale, nel quale il trattamento della natura assume con i suoi effetti visivi un rilievo particolare. Esso appartiene ai tempi eroici del cinema muto, che sta al cinema di Bergman come il seme alla pianta.
Di poco più vecchio di Stiller, Victor Sjöstrom realizzò nel 1920 quello che Bergman considera il più importante film dell’epoca, Körkarlen (Il carretto fantasma), anch’esso tratto, derivando da antiche leggende contadine un racconto di agghiacciante compostezza e di mirabile vigore fantastico, da un romanzo della Lagerlöf. Con Sjöstrom, di cui Bergman avrebbe fatto in tempo a sfruttare il non comune talento di attore in due diverse fasi della sua carriera, il cinema svedese acquistò nuova coscienza formale (l’utilizzazione magistrale della tecnica dei flash-back e delle sovrimpressioni) e ricchezza espressiva: la costruzione psicologica dei personaggi, viso ed occhi come specchi cinematografici dell’anima, la fotografia come rivelazione, in un modo completamente diverso dal teatro, da cui pure Sjöstrom proveniva, degli istinti più profondi e dei sentimenti più nascosti dei personaggi. Inoltre, la cupa ambientazione mitica del racconto, sospesa tra leggenda e realtà, tra straziante infelicità e destino di riscatto, non impedisce a Sjöstrom di toccare anche altre corde, che vanno dal carattere comico al problema sociale, dall’atmosfera acutamente realistica alla completezza nella descrizione ambientale, con tipi e dettagli osservati e resi felicemente, tra concentrati, drammatici interni teatrali e libera mobilità degli esterni. Un modello da tener presente non per un ad quem, ma per un a quo: che significa non retroversione estetica ma piuttosto legittimo ricollegamento, non perciò ortodossamente vincolato, con un passato da non dimenticare.
La conquista successiva del cinema svedese, nell’intervallo delle due generazioni che separano l’epoca pionieristica di Stiller e Sjöstrom da quella di Bergman, fu una maggiore attenzione all’aspetto psicologico e sociale, l’uno e l’altro connessi da una aspra denuncia morale e critica non disgiunta da una pur leggera ironia nel quadro di un gusto romantico ulteriormente echeggiato. Accanto ai meno noti Rüne Lindström, Gösta Werner, Rüne Hagberg, Ake Ohlberg, Hampe Faustmann, Hasse Ekman, Rolf Husberg, Arne Mattson, Gösta Folke, Alf Sjöberg, cineasta colto di origine e formazione teatrale, ne è il rappresentante più significativo: con le sue atmosfere ombrose non prive di suggestione, il suo continuo oscillare tra saga popolare e sacra rappresentazione, intricarsi di reale e d’irreale, caratteri naturalistici, misticheggianti e intimistici, è un’ulteriore variazione sui temi di sempre: natura e soprannaturale, amore ed errore, religiosità e superstizione, innocenza e colpa, Dio e Diavolo. Bergman troverà qui in corso d’opera un terreno fertile per i suoi agganci rapinosi.
Proprio Sjöberg fu indirettamente auspice del debutto di Bergman come sceneggiatore e co-regista del film da lui diretto nel 1944, Hets (Spasimo). Se ne parla qui, come stadio primario della sua poetica, proprio per rilevare il principio dell’innesto sul tronco di una tradizione. Il soggetto, anzitutto. Una piccola prostituta, x (qui impersonata da una giovanissima, tenera, trepida Maj Zetterling) ama di un amore puro e sincero un giovane studente inesperto e sentimentale, ma non riesce a sottrarsi alla schiavitù di un anziano, sadico insegnante, il professor Caligola (reso con notazioni precise da Stig Järrel), il quale durante le sue crisi la spinge a ubriacarsi e quindi la terrorizza, fino a provocarne la morte per attacco cardiaco. La trama è centrata con molta serietà e rigore soprattutto sulla figura di questo professore, sulla rappresentazione dei suoi rapporti con gli allievi e con la ragazza, dei suoi scatti crudeli o puerili, delle sue angherie e vigliaccherie, fino al suicidio esemplare (si getterà dalla tromba delle scale del liceo tante volte risalite con passo nervoso e maligno). La serietà e il rigore di questo soggetto implicano la trattazione di un caso clinico, ma coinvolgono anche duramente il rapporto dei rapporti tra studenti e insegnanti. Vi appare a sua volta come autore del soggetto un Bergman ribelle e insofferente, anarchico e libertario, “”protestante””, attratto però anche dalla figura al tempo stesso diabolica e fragile del dittatore spietato.
Come realizza Sjöberg questo soggetto? Esattamente come lo avrebbe realizzato Bergman nei suoi primi film. Le scene che si imprimono nella memoria sono di pretta atmosfera bergmaniana: la lezione di latino iniziale, lucida e tesa, vagamente espressionista; il primo incontro con la ragazza, con l’acuta tristezza di quel fondo di “”blues”” sottolineante i gesti stanchi e ubriachi di lei nella camera; il notturno rincasare del ragazzo con quel  muto impensierito rimprovero del padre che l’ha aspettato; l’ossessione degli esami; la scoperta di lei esanime sul letto e del professor Caligola nascosto e intontito dalla paura in un angolo della casa; il silenzioso vagare del giovane sotto la pioggia e il disperato rinchiudersi nella camera che fu di lei. Forse Bergman non avrebbe usato toni altrettanto intimistici e non avrebbe rivestito di morbosità qualche scena; forse avrebbe coeso drammaticamente l’azione rendendola meno corriva. Ma sono difetti e tendenze che si ritrovano anche nei suoi primi film, dove l’urgenza dei contenuti fatica ancora a trovare una propria forma personale. Colpisce soprattutto l’ansia del giovane Bergman di trovare una via di sfogo e di uscita alla sua rivolta, alla sua fosca negatività. Eppure si trattava della nascita di una poetica, destinata a mutarsi ma non a smentirsi col tempo.
Questa poetica aveva le sue radici, oltre che nella cinematografia svedese coeva, nella letteratura svedese degli anni Quaranta, con la quale Bergman si confrontò assiduamente nel suo lavoro di sceneggiatore per la Svensk Filmindustri. Era inevitabile che ne assorbisse le tematiche e che cercasse di elaborarle nel trasferimento dal romanzo al film, intervenendo soprattutto nella trasposizione cinematografica dell’intreccio. Gli interessavano i risvolti psicologici più delle vicende della trama, alle quali cercava di sottrarre proprio lo specifico romanzesco del racconto. Molti di questi romanzi avevano come sfondo il tema della denuncia sociale; e questo tema si ritrova puntualmente nei primi film di Bergman, a poco a poco virato però verso una condizione esistenziale non determinata in primo luogo dai fattori socio-economici. La denuncia di Bergman tende a universalizzarsi, ad avanzare l’ipotesi che l’uomo con le sue problematiche non sia un prodotto della sua classe di provenienza, del suo ambiente, delle condizioni concrete in cui si svolge la sua vita, bensì di un destino immanente e forse immutabile che ne determina le reazioni. E queste reazioni si rivolgono sempre più a indagare alcune costanti proprie, secondo Bergman, della condizione umana, che qui significa di tutti gli uomini indipendentemente dall’educazione e dall’ambiente di vita: l’angoscia, la sofferenza, l’incertezza, la paura della morte, il contrasto tra illusione e realtà, tra volontà e azione, l’impotenza di fronte al male. Questi temi tendono a divenire entità trasversali e metafisiche che si ripresentano, a livelli diversi di intensità, in tutti i film di Bergman, costituendo l’ossatura della sua poetica: perfino nelle commedie, che costituiscono per così dire la versione rosa degli stessi temi “”neri””. Il caos materiale, spirituale e morale che attanaglia l’uomo non è il prodotto di un’epoca, ma una realtà che abbraccia tutte le epoche.
Anche sotto questo profilo molti commentatori si sono sforzati di trovare ascendenze a cui far risalire questa visione del mondo. Una corrente tende a sottolineare le influenze dell’esistenzialismo, trovando affinità con Camus, Sartre e, più indietro, con Kafka. Un’altra rileva che l’arte di Bergman è caratterizzata in senso irrazionale e può essere vista come espressione tipicamente novecentesca di una rivolta contro la ragione: la ricerca della felicità e dell’armonia si realizza, quando non si risolve in uno scacco matto, per via miracolistica e individuale, senza contemplare alcuna attività razionale. Un’altra ancora mette in luce gli aspetti spiritualistici, ponendo l’accento sul rifiuto di Bergman di qualsiasi materialismo storico e dialettico: dunque un tardo frutto dell’idealismo. Si tratta di spiegazioni del tutto astratte ed estrinseche, buone tutt’al più per ricostruire un alveo nel quale costringere un fiume in piena. E’ evidente che Bergman, appartenendo al tipo dell’intellettuale di vaste letture e di approfondite meditazioni, abbia bordeggiato e assimilato molte delle tendenze culturali non soltanto della sua epoca ma anche di tradizioni più lontane, evitando però di riconoscersi in una soltanto. Altrettanto chiaro che egli faccia parte di un genere di individualismo legato a una sorta di concetto di superiorità dell’arte, nel senso che solo l’arte – intesa come espressione problematica di cultura – consente di raggiungere quella suprema forma di coscienza che è richiesta per poter combattere i più intimi contrasti della vita. Se si vuole Bergman è un intellettuale borghese che si interroga con il tormento dell’artista su quale sia la meta della vita. Ed è ciò che da sempre hanno fatto gli artisti, indipendentemente dalle risposte che hanno dato a questi interrogativi. I quali in Bergman si connotano di un’inquietudine spirituale che non è soltanto la conseguenza di radici culturali o di condizionamenti della società svedese, ma lo specchio di una visione del mondo tanto personale quanto resa accessibile universalmente a tutti. Sono le immagini a recare l’impronta della personalità di Bergman. Ed essa è accessibile a tutti in virtù del tono costante dei suoi film, della pregnanza del dialogo e della costruzione, delle peculiarità delle inquadrature e delle angolazioni delle riprese, della efficacia del ritmo visivo. Ogni contributo esterno si risolve in questa ricerca di un mezzo espressivo per il contenuto. Paradossalmente si potrebbe giungere ad affermare che la poetica non ne sia la premessa, ma la conseguenza.

Bergman era figlio di un pastore luterano e la sua educazione reca l’impronta della religione protestante. Fatto non marginale, che pesò massicciamente sulla sua formazione. Nella sua famiglia la religione era vissuta come qualcosa di estremamente serio, non soltanto nella cura meticolosa dei riti che ad essa erano connessi (battesimi, matrimoni, funerali, confessioni, comunioni, prediche eccetera) ma anche nell’atteggiamento di fronte alla cosa in sé. Il senso del rapporto con Dio, di Dio stesso, fu inoculato in Bergman prima ancora che egli potesse scegliere. Credere in Dio fu uno dei primi comandamenti che gli furono imposti; dubitare di ogni imposizione autoritaria, fors’anche per reazione, una delle sue prime tentazioni.
Il rapporto con Dio, e l’interrogativo sulla esistenza di Dio, è un tema centrale della sua poetica, e l’attraversa costantemente dagli inizi fino alla svolta degli anni maturi, quando esso sembra essere messo tra parentesi in una sorta di muta accettazione del mistero. Lo si può identificare a diversi gradi di esternazione: come ribellione all’esistenza di Dio, che tuttavia non riesce mai a liberarsi della sua incombenza; come senso di un’assenza; come richiesta imperativa di una presenza; come bisogno di cieca fede od oggetto di miscredenza; come constatazione del suo silenzio e conseguente precipitare nella disperazione; come abbandono pacificato all’enigma insondabile. Giunto alla fine del periplo, Bergman sembra ritornare al punto di partenza. Ma non di un ritorno si tratta, bensì di una acquisizione di coscienza maturata attraverso le diverse fasi della ricerca di Dio: il problema viene semplicemente rimosso e confinato nella sfera dell’ignoto. Se prima Bergman aveva sofferto, implorato, gridato, maledetto, per la inafferrabilità di Dio, ora ne accetta le conseguenze e dopo una lunga terapia guarisce da questa sofferenza. Intanto è passato attraverso tutte le fasi: Dio come tenero Padre; Dio come Figlio tormentato; Dio come spirito benigno; Dio come mostro; Dio come amore; Dio come gelido testimone delle angosce umane. Ogni passione spenta, Dio diviene un concetto astratto che riguarda un altrove: la vita non è concepibile né con Dio né senza Dio.
Ciò che è importante in questo rapporto non è tanto la conclusione, peraltro provvisoria, a cui Bergman giunge, quanto la tensione del conflitto, l’ansia di una risposta all’interrogativo. E il fatto che l’interrogativo non sia mai risolto, dimostra che l’urgenza non può aver fine. Ciò non significa, come molti osservatori di parte hanno ritenuto, che la nostalgia di Dio sia una prova della sua esistenza, e che quindi Bergman sia da ascrivere tra i credenti, ma piuttosto riconoscere al tema in quanto tale una importanza fondamentale nella vita dell’uomo. Che si chiami Dio o trascendenza, l’uomo non può non interrogarsi su questo tema: ne è per così dire pervaso. Il fatto che Bergman lo abbia posto al centro della sua poetica, dandogli numerose variabili senza affermarne definitivamente nessuna, sta a dimostrare, da qualunque parte provenga, la sua ineluttabilità nella sua visione del mondo.
Strettamente connesso con il tema di Dio è quello della morte. Esiste un aldilà dopo la morte? La vita eterna è soltanto una promessa? E quali requisiti occorrono per ottenerla? Lo iato da ogni visione confessionale del problema è evidente. Anche qui Bergman si interroga, e la sua ricerca si avvinghia su se stessa come una spirale. E ancora una volta è il modo che conta, non la soluzione. Bergman ha affermato che l’ossessione della morte – ossia del destino dell’uomo dopo la morte – lo ha tormentato in misura inversamente proporzionale al trascorrere del tempo. Fin da bambino, essa è stata al centro dei suoi pensieri, accompagnandolo come una consuetudine. I suoi film dell’età di mezzo ne sono attraversati incarnandosi in una costellazione di simboli. Essa ritorna periodicamente nelle sue creazioni mature. Se la distanza dalla morte si assottiglia, ed essa diviene quasi una scadenza naturale, non per questo Bergman cessa di evocare la nera falciatrice, cercando quasi di rendersela amica. Solo così la morte, quando verrà, sarà benigna.
In molti film di Bergman è toccato il tema del suicidio, sorta di scorciatoia possibile, e volontaria, tra Dio e la morte. Nella sua autobiografia egli rivela di essere stato molte volte tentato dall’idea del suicidio, ma di non essere mai arrivato al punto di prenderla veramente sul serio: il suicidio non è una soluzione, afferma un personaggio di un suo film, e questo sembra per una volta essere anche il pensiero dell’autore. Se la sua curiosità per la vita ha sempre prevalso, ciò non toglie che in una discussa intervista di alcuni anni fa Bergman si sia apertamente schierato a favore dell’eutanasia, dichiarando che di fronte a una malattia terminale della vecchiaia – tale da ridurlo allo stato di vegetale – non avrebbe esitato a togliersi la vita. La stampa ha riportato questa dichiarazione come un’istigazione al suicidio. Non è così. Bergman ha semplicemente voluto dire che, così come in vita non si è mai ritratto dall’affrontare questioni anche delicate e fondamentali dell’esistenza, non avrebbe mai rinunciato alla libera scelta di guardare in faccia la morte: ed era quello il suo modo di riaffermare la sua libertà. Solo così l’uomo può illudersi nell’ora estrema di tenere in scacco la morte.
C’è naturalmente un altro mezzo per farlo: lasciare testimonianza di sé a coloro che restano e che verranno. Anche questo compito Bergman lo ha assolto fino in fondo.

Per Bergman tutte le esperienze affondano le loro radici nell’infanzia. E’ lì che viene segnato il destino di tutta la vita. Questa convinzione, passati gli anni della giovinezza, si rafforza nell’età della vecchiaia, quando l’infanzia – la sua infanzia – gli appare come uno scrigno ricolmo di tesori e di spiegazioni: ne è testimonianza il film-testamento della sua vita, Fanny e Alexander. Ma anche in seguito Bergman metterà in moto tutta una serie flash-back retrospettivi volti a indagare i segreti dell’infanzia, affidandoli non più al cinema ma al racconto scritto (Nati di domenica), spingendosi poi ancora più indietro a scandagliare episodi della vita dei suoi genitori prima (Con le migliori intenzioni) e dopo (Conversazioni private) la sua nascita. Significativamente l’autobiografia Lanterna magica si chiude con la venuta al mondo del piccolo Ernst Ingmar, debole e malaticcio, quasi che Bergman rileggesse la storia della sua vita a ritroso, in una specie di fuga per moto retrogrado.
Ritornare all’infanzia significa non soltanto recuperare il paradiso perduto, quando il mondo gli appariva come un immenso teatro delle meraviglie, ma anche riconoscere da quali impressioni ed esperienze provengano i caratteri della sua indole. Lo scavo può portare a trovare le ragioni del suo modo di essere o lasciare aperte questioni inesplicabili. Ma tutto ciò che ne consegue non è altro, per rifarsi a una metafora cinematografica, che il montaggio di una pellicola impressionata nelle esperienze dell’infanzia. Il traguardo, che sotto certi aspetti coincide con la scelta di servirsi del mezzo cinematografico, è meravigliarsi e tornar a guardare il mondo con gli occhi innocenti di un bambino.
Bergman ha avuto un’infanzia abbastanza complicata ma al tempo stesso privilegiata. Secondo di tre figli, è cresciuto in una famiglia borghese retta da solide leggi matriarcali, quasi tutta formata da figure femminili, mentre il padre, uomo profondamente tormentato e contraddittorio, tanto zelante quanto pieno di dubbi sulla sua missione, gli ha trasmesso quella mentalità inquieta che si sarebbe poi rivelata creativamente nell’esercizio dell’arte. Conflitti acuti, sovente insondabili, si manifestarono continuamente nei rapporti tra i due genitori, e di lì si ampliarono ai figli, che ne furono al tempo stesso testimoni e vittime, ricevendone un’impronta profonda. Un punto fermo era rappresentato dalla figura della nonna materna, cui Ingmar fu attaccatissimo, e dal variopinto palcoscenico delle case da lei abitate, prima fra tutte quella delle vacanze estive in Dalecarlia, sul quale si muovevano affascinanti personaggi di famiglia, come lo zio Carl, fratello della madre, estroso inventore di progetti improbabili, modello di tanti falliti di talento del suo cinema. Il privilegio dell’infanzia consistette nel fatto che, accanto a una formazione culturale assai accurata, Bergman poté disporre intorno a sé di una materia viva estremamente variegata e multiforme, dal quale la pellicola sensibile della sua anima fu impressionata in modo indelebile, alimentando senza esaurirla la fiamma della rievocazione e del ricordo. E anche l’infanzia ferita divenne un tema della sua elaborazione. L’infanzia come sogno incantato, il rifugio in cui ritrovare intatto, come in un simbolo di felicità, il posto delle fragole.
La famiglia occupa un posto importante nella poetica di Bergman. I rapporti tra genitori e figli, i conflitti generazionali, il legame del sangue sovente negato ma mai del tutto sciolto, ritornano continuamente, ora come un Leitmotiv esibito, ora come un filo rosso occulto, nelle sue opere. E ciò assai prima che l’interesse si spostasse per così dire da una prospettiva verticale a una dimensione orizzontale, prendendo di petto il tema, destinato a diventare centrale, della lotta fra i sessi, dentro o fuori del matrimonio. Questo tema è stato spesso ricondotto dalla critica a stereotipati luoghi comuni, etichettati da formule eclatanti come alienazione, follia, rovina,  incomunicabilità, perenne contrasto: inevitabile l’accostamento con Strindberg. Nel momento in cui la sessualità erompe con tutta la sua forza e finisce l’eden dell’infanzia, si manifestano in Bergman sentimenti contraddittori: il bisogno insopprimibile di un contatto umano, che nel rapporto tra uomo e donna implica l’unione fisica, innesca tutta una serie di conseguenze che oscillano tra gli estremi opposti di un’armonia e di una disarmonia completa. Si direbbe che Bergman osservi scientificamente, nel rapporto tra uomo e donna (a tutti i livelli: adolescenziale, adulto, maturo), le varianti infinite di una reazione chimica che coinvolge tutta l’attività spirituale dell’individuo e lo conduce oltre se stesso. Egli non esclude che il raggiungimento dell’armonia sia possibile, ma lo vede sotto specie di un conflitto che è immanente al porsi in relazione degli individui, in altri termini alla scoperta dell’altro. Questo conflitto è tanto più forte quando implica i rapporti tra uomo e donna. L’impulso sessuale, la passione, l’amore giocano in prima battuta un ruolo fondamentale; ma è l’evolversi del rapporto che genera contrasti. E questi contrasti sono di solito il risultato di una difficoltà a vivere in maniera completa, abbandonandosi, le relazioni interpersonali: qui Bergman non è certo avaro nel mostrarci gli effetti devastanti che ne possono derivare. Ma più che di incomunicabilità, si tratta di un problema reale di comunicazione e di realizzazione, che comunque investe a monte il concetto di personalità. I personaggi di Bergman sono in genere esseri tormentati, indecisi, attanagliati da dubbi; e lo sono in senso assoluto, non parziale: in essi si rispecchiano sempre le grandi questioni del senso e dei limiti delle cose. Ciò vale soprattutto per i personaggi maschili, la cui debolezza è strutturale e labirintica, mentre nei personaggi femminili si riconosce una maggiore linearità, una forza interiore più pronunciata, una capacità di esporsi anche sacrificandosi: cosa che li rende, all’interno di una gamma di sfumature assai ampia, più plastici e rilevati. Il rilievo che Bergman conferisce alla dinamica complessa del confronto tra uomo e donna si basa sul riconoscimento che quello di vivere è un mestiere difficile, nel quale le ambizioni (o le migliori intenzioni, per riprendere una sua espressione) si scontrano duramente con una realtà di cui è arduo venire a capo. Soprattutto a volerla affrontare senza compromessi e senza accomodamenti. Anche sotto questo punto di vista Bergman è un autore radicale, un veggente preso nel vortice dell’inesplicabile.
La condanna che viene comminata in caso di disfatta è, indifferentemente, la solitudine. Condanna che rappresenta l’anticamera della morte (quante volte nei suoi film si afferma di essere morti in vita; per scoprire che anche i morti sono vivi in una eterna ripetizione della pena), ma è al tempo stesso una condizione ontologica dell’esistenza. Per quanti sforzi possano fare, i personaggi bergmaniani faticano a uscire dalla cornice della solitudine e si dibattono come uccelli chiusi in gabbia. L’unica forma di liberazione è un presunto atto della volontà, che per lo più vuol dire, nel suo codice, insieme fede e disperazione. Molti dei finali aperti di Bergman, o almeno quelli che non si concludono con un doloroso commiato, sono appunto il frutto di una scossa che viene a squarciare le tenebre, un raggio di sole tra le nuvole che non riesce a far dimenticare il passato orrore: un atto volontaristico che s’impone come un messaggio di speranza. Bergman oscilla tra finali chiusi, tragicamente pessimistici, e finali aperti, volti a un superamento ottimistico. Ma egli è un autore né pessimista né ottimista, in quanto fine della sua arte è raccontare per immagini storie che interpretano il suo modo di vedere le cose, osservandole implacabilmente a trecentosessanta gradi. Ciò che conta è l’analisi, non le conclusioni: le quali, nell’ambito di una poetica così circostanziata, ricorrente (per pochi altri cineasti vale l’affermazione secondo cui Bergman ha rifatto sempre lo stesso film, o meglio variazioni sullo stesso film), sono comunque provvisorie, sospese in dissolvenza nel tempo e nello spazio, e semmai rimandate al prossimo lavoro, come in un ciclo infinito: infinito perché infinita è l’angolazione della tematica.
Col passare del tempo, avvicinandosi alla maturità, se non alla vecchiaia, Bergman sembra però aver trovato un ubi consistam meno esacerbato e livido, intriso di pietas anzitutto verso se stesso. Se il male di vivere, che contiene come un ossimoro la gioia di essere vivi, non può essere cancellato, venire a patti con esso non significa rinunciare a cercare, ma trovare una dimensione di equilibrio che consenta di raggiungere la pace e di sentire la distensione. Ciò è possibile accettando i propri limiti, frenando l’impulso tumultuoso a roteare la spada contro i demoni del mondo. Bisogna imparare a convivere con i demoni. Lasciarli sfogare. Attendere che passi l’ “”ora del lupo””, durante la quale amano manifestarsi. Smettere di erigere intorno a sé muri alti per difendersi, e aprirsi a ciò che ci circonda con calore, solidarietà, fiducia: anche se ciò comporta un velo di tristezza e di amarezza di fronte all’incapacità di dare un ordine al mondo. Bergman ha trovato questa pace nell’isolamento dai vasti orizzonti perduti sul mare dell’isola di Faro. Come autore, ha intonato un definitivo, commosso elogio del “”piccolo mondo”” degli affetti e delle cose semplici nel momento in cui gli Eckdahl, ossia Bergman stesso, celebravano il miracolo della vita che si rinnova dopo tante catastrofi, come una promessa di futura felicità. Il momento stesso del suo addio al cinema.

Testimoni privilegiati dell’insensatezza del mondo sono, nel cinema di Bergman, gli artisti. I musicisti, i pittori, gli scrittori, i poeti e naturalmente gli attori. Ad essi è dato di reinventare il mondo, non soltanto in quanto dotati di una sensibilità superiore che ne rende la vista più aguzza del resto dell’umanità, che continua a vivere senza chiedersi quale sia la meta della vita, ma soprattutto perché sono dei visionari. Naturalmente ciò comporta anche un onere: quello di portare il tormento della consapevolezza come la più pesante delle croci. Ma appunto perché visionari, gli artisti possono evadere dal circolo chiuso della loro coscienza e rivendicare la propria libertà, fittizia o meno che sia. In questo sono anche degli illusionisti: possono mettere e togliersi la maschera a loro piacimento, travestirsi e creare le cose non come sono, ma come vorrebbero che fossero.
Bergman ha inscenato sovente nei suoi film, schierandosi, la battaglia dell’artista contro il mondo ottuso che non vuole riconoscerlo, per quieto vivere o perbenismo, ma ha anche demistificato il ruolo dell’artista come detentore di certezze. Così facendo, si è per così dire sdoppiato. Non solo. Nel tormento dell’artista ha visto ripetutamente l’allegoria di se stesso, l’incarnazione al livello più alto dei principi di necessità e di inutilità. I suoi artisti sono musicisti che nella musica riversano una impossibile redenzione dalle miserie che li circondano (eppure la musica è redenzione), pittori scalcinati che terrorizzano il prossimo dipingendo sulle pareti delle chiese danze macabre e giudizi universali (eppure vivono l’idea della morte), scrittori falliti e poeti da strapazzo afflitti da incipiente senilità o da adolescenzialità brufolosa (eppure hanno la nozione dell’arte), ciarlatani che girano il mondo con giochi di prestigio e di magia (eppure intuiscono il valore della trascendenza). Quanto agli attori, essi sono la quintessenza della finzione, ma al tempo stesso il volto più segreto del mistero. Su tutti, indistintamente, risplende la luce della verità, anche quando il tema è virato in commedia.
In molti passaggi, in film anche lontani fra loro, Bergman si è soffermato sul gioco da scatole cinesi del teatro che irrompe nel cinema. In tutti questi casi ha sempre sottolineato il valore per così dire salvifico dell’attore che recita un attore, ossia dell’attore al quadrato. E’ come se in questi casi un raggio di vivida chiarezza si venisse a deporre dall’esterno per annunciare qualcosa di decisivo, di meravigliosamente eloquente: un momento magico di sospensione e di attesa. E a dominare allora è l’amore riverente per l’artista in quanto tale, cui è consentito, anche se solo per brevi istanti, di interrompere il corso del mondo. Bergman non ignora quanto nell’artista, e nell’attore in particolare, vi sia di falso: ma apprezza il suo sforzo quasi disperato di calarsi in una dimensione diversa da quella reale. Egli è un simbolo della vittoria della fantasia sulla concretezza. Ciò vale in modo particolare per l’affettuosa indulgenza con cui sono trattati gli artisti di circo e i saltimbanchi, verso i quali Bergman dimostra una vera e propria ammirazione (del resto il circo è stata una delle sue passioni fin da bambino). Quello di circo è un artista di serie B, forse ai nostri occhi, ma non a quelli di Bergman, non meriterebbe neppure quest’appellativo. Costretto a vivere nella precarietà e nella promiscuità, in alloggi spesso di fortuna, a condurre una vita randagia e miserabile, esibendosi sotto un tendone mobile, egli rappresenta la quintessenza di un modo di intendere la vita, quella del viandante, dura e spietata quanto poetica e romantica. Nella sua miseria, materiale ma non spirituale, nell’esercizio dell’arte assolto ai minimi livelli (il domatore, il clown, l’acrobata), l’artista di circo incarna il sorriso sul volto rigato di pianto, il coraggio nella paura, la destrezza unita all’incoscienza. Ciò che gli uomini farebbero con vergogna, egli lo fa con allegria e totale sprezzo del pericolo, per regalare agli altri, e forse a se stessi, un attimo illusorio di gioia, di sorpresa, di stupore. Senza esibizionismi o grida di dolore, il circo circoscrive e riscatta il caos del mondo. Di più: per Bergman, il piccolo mondo del circo è una metafora in miniatura, positiva, della grande arena della vita.
Gli artisti sono fondamentalmente dei sognatori, e per Bergman l’arte stessa è, al grado più elevato di rappresentazione, sogno. Nella sua poetica non mancano certo le confrontazioni con la crudezza della vita, con la società, con la morale, con le convenzioni, con le ideologie, con i pensieri, con i sentimenti: egli è anzi uno dei più spietati analizzatori di tutti questi motivi che ne stanno alla base. Ma la dimensione propria della sua visione di tutto ciò che lo circonda, che sta dentro o fuori le cose, è il sogno, la trasfigurazione onirica. Anche fare film è fondamentalmente un sogno, come Bergman ha spesso ripetuto, ossia entrare in una atmosfera nella quale non esistono più tempo e spazio, tutto può accadere, e tutto è possibile e verosimile. Nei film di Bergman sono evocati numerosi sogni, ed essi hanno ogni volta il valore di una premonizione, di una rivelazione, di un segnale proveniente dall’inconscio: la realtà non è altro che un pallido riflesso del sogno, e il sogno spesso agisce drammaturgicamente per anticipare o svelare i risvolti più nascosti della realtà. La rappresentazione dei sogni – valga per tutti l’esempio dell’inizio del Posto delle fragole – gli suggerisce scelte formali speciali, volte appunto a creare l’atmosfera particolare che è propria dello stato onirico, con le sue incongruenze e le sue dissolvenze: bianchi e neri accesi, sovraesposizioni della luce, baluginare di larve, figure dai contorni fantomatici o lucidamente nette. Il sogno è il regno dei demoni, che si presentano sotto forma di incubi più incalzanti e incisivi di qualunque fenomeno o apparizione  reale, e dei morti, che continuano a sognare anche dopo aver esalato l’ultimo respiro. Ma è anche rifugio e miraggio di pace, consolazione dall’angoscia e dall’ansia, speranza utopica che tutto possa cambiare e prendere un altro corso, giacché l’immaginazione, in un impercettibile attimo di verità, vi produce il suo filo e tesse nuovi disegni all’infinito. Arduo è, da ultimo, decifrare che cosa separi il sogno dalla realtà, dove siano i confini che li dividono, stabilire dove inizi l’uno e finisca l’altro.
Tutto il cinema di Bergman è al tempo stesso rappresentazione disincantata della realtà più estrema ed evasione in un mondo di purezza incontaminata che ha le fattezze del sogno. Questi due piani tendono ora a mantenersi chiaramente distinti, ora a sovrapporsi e intrecciarsi indefinitamente. Spesso, tra l’uno e l’altro, non vi è scarto, ma continuità e immediatezza; altrettanto spesso il passaggio è invece brusco e violento. Ciò rientra nella più vasta dialettica tra l’analisi spietata di una situazione di fatto – sia essa determinata dal sentimento, dal pensiero o dall’agire, o semplicemente da una perturbazione della psiche – e il vagheggiamento di un altrove nel quale i conflitti si stemperano e la tensione miracolosamente si distende, creando un’oasi di felicità. Bergman è un maestro nel fissare questi stati d’animo e nel rappresentarli per immagini. Oltre ai paradisi perduti dell’infanzia e al potere catartico del sogno (anche del sogno a occhi aperti), un elemento di pacificazione è costituito dalla contemplazione della natura con le sue leggi eterne e immutabili. Il trascorrere ciclico delle stagioni è quasi la promessa di un ordine immodificabile, che ha la perfezione della sfera. Tutto si rinnova e si ripete, e l’uomo, preso nel vortice della sua angoscia, si riconosce come una piccola parte di un universo che ha in sé l’antidoto per superare tutte le catastrofi, e forse redimere la sua insensatezza. La natura parla a Bergman con accenti di commozione e di ammonimento; e quando non compare, suscita un sentimento acuto di nostalgia. Essa si manifesta nelle forme dei paesaggi della sua terra nordica, l’unica nella quale a Bergman è possibile concepirla. Anche qui le antinomie tendono da un lato a radicalizzarsi, dall’altro a fondersi: la città e la campagna, la tenebra e la luce, i boschi e i laghi, il freddo invernale e il tepore del sole estivo, l’acqua e il cielo. I quattro elementi – acqua, terra, fuoco, aria – sono simboli attraverso i quali potrebbe essere letta tutta la sua opera. Soprattutto l’acqua e la luce: che si connettono con fasi  e stati d’animo precisi.
Bergman, che ha scelto di trascorrere l’ultima parte della sua esistenza su un’isola, trovandovi la tranquillità, sente creativamente come pochi il richiamo del mare, soprattutto quando esso coincida con la parentesi serena dell’estate e della vacanza. Per un abitante del nord l’estate significa luce e calore, e nei film di Bergman questi elementi divengono metafore pregnanti, sinonimo di un’evasione (temporanea, ma vissuta come un assoluto) dal gelo e dalle tenebre che attanagliano non solo il corpo ma l’anima. Quanto è radicale nell’accanirsi nella disamina dei contrasti che rendono l’uomo inquieto e grondante dolore, altrettanto sa esprimere con tenerezza e dolcezza incantate quelle pause estatiche nelle quali la natura offre un rimedio e un compenso al male di vivere. Le sequenze assumono allora un timbro magico, pacificato, splendente, e si ha l’impressione che venga raggiunta una atarassica condizione di felicità. Per quanto questa sia soltanto una fuggevole illusione, Bergman che la fa assaporare fino in fondo, con vera, trepida emozione. Poi l’estate finirà, la vacanza sarà solo un ricordo, tutto riprenderà come prima, ma aver vissuto quei momenti è stato meravigliosamente bello. E la nostalgia che se ne prova è quasi insostenibile. E’ forse per questi momenti – ancora più esaltanti se connessi al tempo della giovinezza, delle prime scoperte e delle forti illusioni che il tempo si incaricherà di distruggere – che vale la pena, nonostante tutto, vivere.

Un artista che per tutta la vita si è interrogato con impietosa acribia sui grandi temi della vita e della morte, della religione e dell’arte, con violenza e accanimento da conquistatore nei suoi anni Sturm und Drang, con apparente, maggior distacco (salvo alcune improvvise recrudescenze) successivamente – un distacco che forse è solo decantazione -, sembra essere approdato alla fine della sua parabola a una quieta saggezza che non significa rinuncia, ma solo discernimento. In tutto questo tempo la sua poetica ha mantenuto, fur tra numerosi contrappunti e digressioni, una riconoscibile identità, come una tematica sottoposta a un processo progressivo di variazioni. Le variazioni sul tema hanno per oggetto le idee e i sogni privati di Bergman, affrontati con quel rigore che gli deriva dalla sua nascita, dalla sua formazione, dalla sua cultura, dalle sue esperienze. Ma tutti questi motivi si sono tradotti e sono stati interpretati in una definizione stilistica che è riuscita a trasformare la sua capacità di osservatore su se stesso in una visione universale, comprensibile agli altri. In questo sta la sua forza e la sua grandezza di artista. Il linguaggio scelto da Bergman è quello del cinema, gli strumenti per realizzarlo sono la macchina da presa e gli attori. Con questi mezzi Bergman ha ricreato tutto un mondo dandogli una cifra personale, inconfondibile. Si potrebbe dire che egli sia pervenuto a una sorta di immedesimazione nella quale autore e opera sono la stessa cosa. Gli interrogativi dei film di Bergman riguardano la relazione degli uomini con la trascendenza, ma si estendono a interessare tutta la dolorosa esperienza che fa soffrire gli uomini del nostro tempo. La sua angoscia non è determinata da piccole questioni che si agitano in una società benestante, colta e intellettuale, ma è lo sfondo spirituale, che interessa tutti, di quell’essere pensante che chiamiamo uomo, e le incognite, le minacce addensate sul suo futuro.
Per quanto Bergman tratti in profondità le relazioni interpersonali, la sua indagine verte soprattutto sull’enigma della personalità, sul carattere dell’individuo, sulle pulsioni del sesso, delle viscere, del cuore e del cervello. Lo specchio rivelatore del mistero è il volto umano, che nessun altro fabbricante di immagini ha scandagliato così intimamente. Per questo Bergman ha via via affinato una tecnica di impiego degli attori basata sui primi piani, raggiungendo nella penetrazione psicologica un virtuosismo senza pari, e una poetica che ha nel dramma da camera, fatto di pochi personaggi e di molto dialogo, misurato negli arredi di scena e negli esterni, il suo modello. Si evidenziano qui non pochi imprestiti con il teatro, non solo nello scambio costante di un gruppo di attori che sono entrati a far parte a pieno titolo di una vera e propria “”compagnia Bergman””, ma anche nella costruzione delle scene, nell’illuminazione, nella regia. Prettamente cinematografici sono invece il ritmo, la polifonia, il taglio delle immagini, le sequenze, il montaggio. Ma non soltanto il teatro. Anche la pittura e la musica sono state fonti d’ispirazione della poetica bergmaniana. Se la pittura gli ha offerto lo spunto per molte inquadrature di suggestiva reminiscenza o di animata evocazione, la musica è il linguaggio che più si apparenta al suo cinema. Non s’intende qui la colonna sonora dei suoi film, che pure ha avuto con il passare del tempo notevoli trasformazioni, ma proprio il modo di intendere il respiro del film (e la sua architettura) secondo forme musicali quali la sonata, il trio, il quartetto, la toccata, la fuga. La concezione musicale è immanente al discorso formale ed espressivo dell’opera di Bergman.
Ciò potrebbe portare alla conclusione che il cinema di Bergman racchiude in unità tutte le arti, dalla letteratura al teatro, dalla pittura alla musica. E sarebbe una conclusione accettabile. Occorre però ribadire che tutto ciò si realizza in un sistema del tutto specifico che è proprio del cinema e che in esso trova il suo stile, la sua arte espressiva, in una visione fatta di tecnica e di invenzione, di analisi e di poesia, al cui centro si trova, nelle sue molteplici sfaccettature, la persona, proprio nel suo significato originario di individuo e di maschera.

3. Fedeltà coniugale: il teatro
Testo e note

Fedeltà coniugale: il teatro

“”…Perché il teatro è sempre e comunque magia…””

Bergman ha confessato a più riprese nel corso della sua carriera professionale di considerare il teatro alla stregua di una moglie e il cinema a quella di un’amante. L’amante può riservare emozioni speciali, entusiasmi eccitanti, euforie liberatorie, ma è alla moglie che sono destinate premura, amicizia, confidenza, solidarietà, senso di appartenenza: in una parola, fedeltà. E in questo senso la fedeltà di Bergman al teatro è a prova di qualsivoglia verifica: lo testimoniano una novantina di regie teatrali prodotte in circa sessanta anni di attività. Anche quando ha abbandonato le avventure del set, Bergman ha continuato a lavorare nel teatro, distillando le produzioni del suo splendido tardo stile in quella specie di luogo sacro e protetto che risponde al nome grazie a lui leggendario di “”Dramaten””, il Teatro Reale Drammatico (Kungliga Dramatiska Teatern) di Stoccolma.
Parlare del regista teatrale Ingmar Bergman significa camminare sulle sabbie mobili, basarsi sulle testimonianze indirette delle recensioni o su ricordi personali, ma soprattutto azzardare delle ipotesi. Per quanto lo scarto tra il lavoro in teatro e quello negli studi cinematografici sia sempre stato minimo, a differenza del film – come l’autore stesso ha spesso sottolineato – il teatro vive di realtà impalpabili, di suggestioni balenanti, di sensazioni particolari che si esauriscono, anche quando lasciano una traccia, con la fine della rappresentazione e che poi cambiano da rappresentazione a rappresentazione. Fissare questi attimi è estremamente problematico, e ancor più lo è costruirci sopra un discorso critico che abbia criteri di validità in assenza della meravigliosa capacità di comunicare in modo diretto, tipica del teatro. Bergman, facendo suoi i presupposti di una poetica antirealistica e antinaturalistica1,  ha affermato spesso che “”la vera creazione teatrale deve fare in modo che il pubblico non dimentichi mai di stare assistendo a uno spettacolo””2, aggiungendo che la riuscita di una produzione teatrale si basa sulla interazione dinamica fra i tre elementi che danno vita a una specie di “”triangolo magico””: il testo, gli attori e il pubblico. Il teatro rimane essenzialmente illusione, evocazione di una finzione che si sostituisce alla realtà e la amplifica magicamente. Il racconto di un’esperienza fatta all’età di dodici anni assistendo dietro le quinte alla rappresentazione del Sogno di Strindberg e rimasta per lui indelebile3 chiarisce questo concetto.

Fu la prima volta che mi resi conto del potere magico degli attori. L’avvocato teneva una forcina fra il pollice e l’indice. La fletteva, la raddrizzava e la distrusse. Non c’era nessuna forcina, ma io la vidi. L’ufficiale stava dietro la porta, sul palco, aspettando il momento della sua battuta per entrare. Era piegato in avanti, si guardava la punta delle scarpe, le mani dietro la schiena. Si schiarì la voce con calma, pareva una persona normalissima. All’improvviso aprì la porta e fece un passo in avanti nella luce del palco. Era cambiato, trasformato: era l’ufficiale.

L’apprendistato teatrale di Bergman, la sua theatralische Sendung di novello Wilhelm Meister come viene adombrata anche nella rievocazione dell’infanzia del personaggio di Alexander nel film autobiografico Fanny e Alexander, si svolse tra le pareti domestiche delle case di genitori e nonni per mezzo dei tradizionali teatrini-giocattolo delle marionette: nel suo caso sempre più sofisticati modelli in scala che col tempo vennero dotati “”di luci, piattaforme girevoli, palchi sopraelevabili e ogni altra cosa concepibile: enormi aggeggi che riempivano tutta la mia stanza al punto che nessuno poteva entrarci””4. Se l’interesse si appuntava con ingordigia tipicamente infantile su tutta la produzione drammatica che via via egli veniva conoscendo con la lettura (testi svedesi, ma non solo), le messinscene del suo teatrino privato mettevano in rilievo, quasi con insaziabile curiosità di sperimentatore, gli elementi spettacolari più mirabolanti, il lavoro con i macchinari del palcoscenico in miniatura e gli effetti di luce; a ribadire, giacché questa tendenza non verrà mai contraddetta, un approccio con il mondo del teatro per così dire attento all’aspetto della forma ancor più che a quello del contenuto: o per meglio dire portato a tradurre i contenuti in forme visibili. Per quanto il giovane Bergman procedesse per conto suo nelle solitarie esplorazioni dei trucchi della messinscena, producendosi anche come drammaturgo in erba, grande influenza esercitarono su di lui le esperienze degli spettacoli a cui poté assistere nella vita teatrale della Stoccolma degli anni Trenta, fiorentissima sia nel teatro di prosa sia nell’opera. Elesse subito, con fiuto infallibile, i due registi leader dell’epoca, Olof Molander e Alf Sjöberg, a punti di riferimento della sua crescita intellettuale e professionale. Di questi, ridotte le distanze generazionali e artistiche, avrebbe dato in seguito ritratti pieni di riconoscenza e al tempo stesso di distacco critico.
Il passo successivo fu l’entrata nella prassi viva del teatro con le prime rappresentazioni amatoriali studentesche, già all’epoca del liceo, cui fecero seguito l’organizzazione di un teatro sperimentale per bambini sostenuto dal Medborgarhuset (il centro municipale) e lo sviluppo di un vero e proprio teatro semiprofessionale animato dagli studenti dell’Università. Bergman ne divenne in breve tempo il motore, rivelando doti non comuni sia sul piano organizzativo, sia come creatore di testi e come regista, spaziando con onnivora sete di conoscenza tra autori grandi e piccoli, svedesi e non, e attirando su di sé l’attenzione di un pubblico piccolo ma fedele e di una critica subito bendisposta a riconoscerne l’insolito talento. La tradizione paludata dell’accademia teatrale svedese, pur vivificata da personalità di spicco, riceveva da queste rappresentazioni forse un tantino velleitarie ma comunque vitali e anticonformiste una sferzata decisa, facendo spirare un vento d’aria frizzante e rigenerante, che piaceva ed entusiasmava nonostante i chiari difetti dell’inesperienza e dell’esuberanza giovanile. Ma a colpire, di quel Bergman, era soprattutto la capacità di galvanizzare l’ambiente, di catalizzare forze fresche ed entusiaste, di creare un gruppo di attori-collaboratori  assolutamente dediti alla sua causa, di stupire con trovate che lasciavano il segno. Dobbiamo immaginarci un personaggio del tutto diverso dagli stereotipi che in seguito l’avrebbero accompagnato, un animatore estroverso interamente votato alla passione del teatro e fanaticamente pervaso dalla “”fisicità”” della sua vita comunitaria (una vita i cui confini debordavano dalla finzione alla realtà) al punto da essere disposto ad accettarne, pur di continuare a farlo, tutte le conseguenze.
Nel 1944, a ventisei anni, Bergman venne chiamato come direttore artistico dal Teatro Comunale di Helsingborg, a dimostrazione che il suo nome si era ormai fatta una certa reputazione. Helsingborg, città di poche migliaia di abitanti nella Svezia meridionale, non era un centro culturalmente importante ma poteva vantare, come ogni piccola città svedese, una solida tradizione teatrale autoctona, ivi esistente fin dal 1921. Le risorse tecniche erano modeste (“”qualche metro di spazio, dodici riflettori e quattro proiettori per il fondale””), le disponibilità finanziarie decisamente limitate, ma l’orgoglio municipale e la presenza di una compagnia, per quanto provinciale, giovane e ambiziosa, costituivano la premessa ideale per una sana e produttiva gavetta. Inoltre si era appena usciti da una guerra che, anche se aveva toccato solo marginalmente la Svezia, era stata di proporzioni mondiali, e ciò imponeva di aguzzar l’ingegno e a inventarsi delle idee per far fronte alla necessità di una discussione e di un confronto. Fu in quest’angolo inquieto, defilato ma non isolato, che il giovane artista poté fare le sue prime esperienze in ogni senso professionali.
A Helsingborg Bergman rimase due anni, mettendo in scena nove produzioni, soprattutto di autori svedesi contemporanei, tra i quali l’unico nome per noi di una certa notorietà è quello di un suo omonimo, Hjalmar Bergman: l’attenzione verso la drammaturgia svedese era in un certo senso una scelta obbligata, ma sarebbe rimasta una costante anche successivamente, per libera volontà, e non per costrizione. Tra queste produzioni spicca la ripresa di un Macbeth già allestito per il teatro universitario di Stoccolma nel 1940, letto in chiave dichiaratamente antinazista come condanna politica delle forze del male. E’ indubbio che Bergman, forse per una moda indotta dai tempi,  sentisse nella sua gioventù il richiamo di un impegno politico radicato nel presente che in seguito sempre più si sarebbe allontanato dalla sua visione del teatro. Ma ad attrarlo doveva essere soprattutto l’intreccio di grottesco e di macabro insito nella più nera tragedia shakespeariana, se è vero che proprio Macbeth fu poi nuovamente affrontato di lì a poco (12 marzo 1948) a Göteborg, dove nell’autunno del 1946 un Bergman ormai in via di palese affermazione era stato ingaggiato come “”direttore residente”” presso il Teatro Comunale. Questa terza ripresa differiva sostanzialmente dalle precedenti per l’apparato scenico (la sala grande del teatro di Göteborg poteva vantare uno dei palcoscenici più avanzati d’Europa, la sua compagnia era ritenuta la migliore di tutto il paese), ma non per l’interpretazione di fondo, volta a far risaltare con violenza quasi fisicamente esasperata il contrasto tra lo sfondo storico attualizzato e il primo piano del dramma interiore che ruota attorno al protagonista (qui un giovane magnifico e destinato a una brillante carriera accanto a Bergman, il suo coetaneo e amico degli affannosi anni di Stoccolma Anders Ek). Si può infine aggiungere che Bergman dimostrava in questa fase una certa inclinazione alle scenografie costruttiviste e ad accumulare gli effetti più ingombranti sul palcoscenico, in altri termini riempiendo più che togliendo, vuoi per un comprensibile entusiasmo di fronte alle potenzialità finalmente ricchissime di una sala moderna, vuoi per un’altrettanta ovvia propensione a dimostrare tutta la sua bravura, perfino a scapito della fedeltà al testo. Anche a teatro la conquista di un proprio stile personale fu il frutto di una lunga e lenta maturazione.

All’inizio della carriera di regista, almeno questo fu il mio caso, si è terribilmente spaventati. Se sei spaventato e insicuro, non devi dirlo e devi adottare l’atteggiamento opposto: devi sembrare deciso, insistere, essere duro (…) Adesso sono totalmente aperto. Prima era un tale stress, una fatica terribile. Ma voi giovani agite in un contesto diverso, è diverso il vostro punto di partenza. Inoltre, non dovete dimenticare che le mode cambiano. Io sono nato e cresciuto all’epoca dei pezzi grossi, e naturalmente – anche se ero soltanto un novellino – volevo a mia volta essere un pezzo grosso e comportarmi come tale. Si impara in fretta ad assumere certi atteggiamenti. (BOMB, 59).

In realtà, la situazione era ben altra.

A grandi linee cercavo di imitare i miei maestri Alf Sjöberg e Olof Molander, rubavo quel che si poteva rubare e rappezzavo con idee mie. Le mie conoscenze teoriche erano scarse o inesistenti. Avevo letto qualcosa di Stanislavskij, che andava di moda tra i giovani attori, ma non l’avevo capito o non l’avevo voluto capire. Non avevo neppure avuto la possibilità di andare a teatro all’estero, ero un genio paesano, un autodidatta nel vero senso della parola. (LM 136)

Gli anni di Göteborg (1946-50) furono importanti perché lo misero a contatto con una scuola dura, severa, favorendo una progressiva presa di coscienza anzitutto intellettuale. Buona parte di merito nella crescita della consapevolezza dell’artigianato del mestiere si deve al direttore di quel teatro fin dalla sua fondazione, l’anziano Torsten Hammarén, figura di primo piano nell’ambiente teatrale svedese. Se non un maestro vero e proprio, una cartina di tornasole per il giovane regista ambizioso e animato da un’incrollabile fiducia in se stesso, ma estremamente ricettivo: “”riconobbi subito in lui, in cuor mio, quella figura paterna che mi mancava fin dal momento in cui Dio m’aveva abbandonato”” (LM 139-140). La prima lezione imparata da Hammarén fu l’importanza della chiarezza di pensiero nell’impostazione del lavoro: “”L’allestimento deve essere chiaro, ben definito. Le oscurità nei sentimenti e nelle intenzioni devono essere bandite. I messaggi degli attori agli spettatori devono essere semplici e trasparenti (…) Quel che accade sulla scena deve raggiungere in ogni momento lo spettatore, la verità d’espressione viene in secondo luogo “” (LM 141). La seconda lezione fu la convinzione che “”l’autentica libertà dipende da schemi tracciati insieme, da ritmi compresi con esattezza. Quella dell’attore, inoltre, è l’arte della ripetizione. Per questo ogni intervento deve basarsi su una libera collaborazione tra le parti interessate. Se un regista tende a sopraffare un attore, può vedere realizzata la propria volontà durante le prove. Quando il regista lascia il palcoscenico, l’attore comincia, consapevolmente o inconsapevolmente, a modificare la propria recitazione secondo il proprio gusto. Il suo interlocutore si corregge subito per lo stesso motivo. E così via. Dopo cinque rappresentazioni una messinscena preparata come un numero di domatore cade a pezzi se il regista non sorveglia ogni sera le sue tigri”” (ibidem).

Un giorno scoprii Torsten Hammarén sfogliare il mio libro di regia. Non c’erano appunti né disegni di scene. Così tu non disegni le scene, disse sarcastico. No, preferisco creare direttamente sul palcoscenico, insieme agli attori, dissi io. Sarà interessante vedere fino a quando ti reggeranno i nervi, rispose Hammarén richiudendo il libro.
La sua profezia s’avverò presto. Io mi preparo fin nei minimi dettagli, m’impongo di disegnare ogni scena. Quando mi presento alle prove ogni istante della rappresentazione dev’essere chiaro. Le mie indicazioni devono essere chiare, utilizzabili e soprattutto stimolanti. Solo chi è ben preparato ha la possibilità d’improvvisare. (LM 141).

A Göteborg Bergman ebbe un debutto di tutto rispetto: Caligola di Albert Camus, con Anders Ek nella parte del tormentato protagonista (29 novembre 1946). Tutte le risorse tecniche e materiali del teatro furono messe a sua disposizione, senza riserve. A quel tempo il teatro per Bergman non ricercava ancora la definizione di determinate suggestioni, atmosfere, situazioni, ma celava un intento teorico, anzi a volte lo esibiva. Fu questo anche il caso del dramma esistenzialista francese, allora di moda, realizzato con grottesca, surreale accentuazione degli aspetti visivi, rischiando con la brutalità delle immagini di togliere la parola ai personaggi. Il critico di Stoccolma Herbert Grevenius, uno dei più antichi e fedeli sostenitori del giovane regista, scrisse nella sua recensione: “”Si scorge sempre una sincera angoscia dietro il suo impegno formale. Bergman ha influenzato persino una persona d’indole tranquilla come lo scenografo Carl-Johan Ström: per la sala del palazzo, questi ha disegnato colonne rosse inclinate, enormi portali egizi e maschere che sogghignano nell’oscurità, tracciando, per così dire, un cerchio magico di morte e desolazione attorno al protagonista del dramma”” (MARKER 48). Questo Caligola clownesco e sardonico rimarrà l’unico incontro di Bergman con il teatro francese dell’assurdo, rispecchiandosi però negli anni di Göteborg nell’allestimento di altri due drammi, con esso confinanti, di Jean Anouilh (La selvaggia e Il ballo dei ladri) e nell’attenzione, questa invece protratta nel tempo, per il teatro americano moderno rappresentato da Tennesse Williams: se a questi autori aggiungiamo gli immancabili svedesi (tra i quali due drammi o morality plays di Bergman stesso alla Piccola Scena: un’offerta coraggiosa e non priva di problemi per il direttore del teatro MARKER 48 e LM 143), avremo il panorama completo delle produzioni bergmaniane nel triennio di Göteborg (NOTA: In realtà Bergman vi sarebbe ritornato come regista ospite all’inizio del 1950 per mettere in scena la tragicommedia Divine parole di Ramón del Valle-Inclán). Esse confermano quanto da lui affermato (ma ciò vale solo per questo periodo) circa l’assenza di criteri nelle scelte: “”Non ho mai avuto un criterio nella scelta dei drammi; ho piuttosto diretto ciò che desideravo dirigere, ciò che sono stato invitato a dirigere o che mi sono sentito obbligato a dirigere, senza alcun principio rigido”” (MARKER 40).
Tennessee Williams era un autore molto rappresentato non soltanto in Svezia ma in tutta la Scandinavia, e non stupisce che Bergman ci cimentasse per l’ultima produzione a Göteborg (1 marzo 1949) con la sua commedia più popolare, Un tram che si chiama desiderio, potendo contare su due attori straordinari: ancora Ek nella parte di Stanley Kowalski e Karin Kavli come Blanche Dubois. Lo spettacolo si segnala per l’uso sofisticato del palcoscenico girevole (un effetto cinematografico spesso ripreso in seguito da Bergman) e per una certa tendenza a coniugare realismo e simbolismo nelle dimensioni di un intimo teatro da camera, amplificato però dai “”rumori”” del mondo esterno. Si può parlare in questo caso di uno stile “”americano”” stilizzato e personalizzato, modernizzato ma reso in larga misura universale nella tematica e nelle intenzioni registiche, sorta di filo rosso che contraddistingue tutti i ritorni di Bergman su questi autori: ancora il Tennesse Williams della Rosa tatuata (1951) e della Gatta sul tetto che scotta (1956), l’Edward Albee semplificato, spoglio e radicalizzato in senso erotico di Chi ha paura di Virginia Woolf? (Dramaten, 1963, in prima europea) e di Piccola Alice (1965), fino all’estremo omaggio crepuscolare del Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill (…): tutti spettacoli che hanno esaltato il lato meno nordico del regista, imponendo via via una maggiore concentrazione sugli attori come centro indiscusso della rappresentazione e sulla intensificazione emotiva, allusiva e formalmente controllata, della messinscena.

I sei anni (1952-1958) nei quali Bergman diresse il Teatro Comunale di Malmö – un teatro di millesettecento posti di nuova costruzione, ispirato a modelli innovativi e insieme popolari – costituirono la prima completa affermazione della sua poetica teatrale. Bergman poté organizzare il suo lavoro con criteri più selettivi sia nella scelta del repertorio sia nella formazione di un gruppo affiatato di attori che, oltre a partecipare stabilmente alle sue produzioni teatrali, venivano impiegati con regolarità anche nei suoi film (non bisogna dimenticare che questo periodo vide la nascita dei suoi primi capolavori cinematografici, da Monica e il desiderio a Il volto passando attraverso Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo e Il posto delle fragole). Di questo gruppo facevano parte nomi divenuti leggendari: oltre al veterano Anders Ek, le giovani Gertrud Fridh, Bibi e Harriet Andersson, Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Naima Wifstrand, e tra gli uomini Benkt-Åke Benktsson, Toivo Pawlo Gunnar Björnstrand e Max von Sydow.
A Malmö Bergman esordì mettendo in scena un dramma popolare di August Strindberg, La sposa da corona (14 novembre 1952), compiendo così, se si eccettua un giovanile Pellicano,  il primo passo d’avvicinamento all’autore che più di ogni altro gli sarebbe divenuto congeniale (“”Lo leggo da quando avevo dodici o tredici anni. In generale, Strindberg mi ha accompagnato per tutta la vita, di volta in volta attraendomi o nauseandomi, semplicemente perché ha espresso certe cose nel modo in cui io stesso, pur non essendo in grado di descriverle, le ho vissute””. MARKER 61). Pietre miliari del confronto con Strindberg negli anni di Malmö furono una cupa e visionaria Sonata di fantasmi (1954), accanto a un sobrio e poetico  Erik XIV  (1956). Alla Sonata di fantasmi Bergman sarebbe ritornato in fasi diverse della sua carriera teatrale, al Dramaten nel 1973 e nel 2000, sempre più accentuando il lavoro sul testo e spogliandolo di oggetti ed elementi scenografici che potessero appesantire l’azione. Altri titoli del catalogo strindberghiano si sarebbero aggiunti in seguito: fra questi, i più significativi furono Signorina Julie (prima a Monaco nel 1981, poi a Stoccolma nel 1985 e nel 1991), Verso Damasco (Dramaten 1974), Danza di morte e Dramma del sogno.
Il sogno è l’opera che più ha caratterizzato la ricerca bergmaniana di uno stile strindberghiano. Nei tre allestimenti di quest’opera (quattro se si considera anche l’adattamento televisivo realizzato nel 1963) che scandiscono le tappe di questa ricerca (Stoccolma 1970, Monaco 1977, ancora Stoccolma 1986) si compie il definitivo passaggio verso la riduzione all’essenza di una rappresentazione tutta concentrata sulla forza delle immagini e sulla suggestione delle atmosfere, mettendo in secondo piano i significati filosofici e mistici di cui il testo è infarcito. In altri termini, Bergman punta risolutamente sull’individuazione di uno spazio scenico altamente simbolico nella sua quasi completa nudità, aiutato solo da pochi elementi facilmente trasportabili come tavoli, sedie e piccoli pannelli mobili, privilegiando da un lato il meccanismo puramente teatrale che sovrintende al dipanarsi di scene apparentemente slegate fra loro, dall’altro il loro forte carattere onirico e illusionistico. Ne risultava un’interpretazione a un tempo oggettiva (lucida raffigurazione di una condizione umana realisticamente intesa) e deliberatamente metaforica (il mondo poetico della fantasia e del sogno, la presenza divina di Indra e di sua figlia), offerta con immediatezza e complicità alla partecipazione del pubblico. L’uso di proiezioni cinematografiche sullo sfondo e l’evidenziazione plastica della messa a fuoco degli attori in nitidi primi piani accresceva il senso di uno sdoppiamento simultaneo tra realtà e irrealtà, governato dal Poeta come se si trattasse di un dramma scritto da lui stesso, di cui fosse al tempo stesso autore e spettatore. La visione della “”vita umana sotto l’incerta sorveglianza di un dio distratto”” si colorava così di un ampio spettro di registri, dal tono struggente e tragico a quello ironico e grottesco, perfino assurdo, senza tuttavia mai perdere di vista l’immaginazione creativa di una rappresentazione teatrale come sogno a occhi aperti (al limite, teatro nel teatro, se non teatro al quadrato). In tal modo Bergman faceva suo uno dei presupposti della poetica di Strindberg, ossia lo stretto, inestricabile intreccio tra sogno e realtà (la qualità onirica della realtà che è allo stesso tempo sempre intrecciata alla insistente realtà del sogno), sviluppandolo però nel senso di un elevato tasso di realismo teatrale, non meramente scenografico o materiale, nella rappresentazione della visione e del sogno: e in tutte le sue principali messinscene di Strindberg questo aspetto per così dire formale di concreta teatralità, basato sulla centralità della parola e degli attori, faceva aggio sulla stessa complessità dei contenuti, realizzando nel contempo il principio eminentemente strindberghiano della smaterializzazione del teatro (un teatro che si interessa quasi esclusivamente degli esseri umani e non di ciò che li circonda).
Tra gli spettacoli prodotti a Malmö suscitano una certa curiosità per noi i Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1953), la riduzione teatrale di Max Brod del Castello di Franz Kafka (1953), Peer Gynt di Henrik Ibsen (1957) e l’Urfaust di Goethe (1958) – gli ultimi due con Max von Sydow magnifico protagonista -, se non altro perché contengono temi a prima vista tipicamente bergmaniani. A Malmö avvennero però anche i primi importanti incontri con Molière  (Don Juan nel 1955 e Il misantropo nel 1957), destinati a lasciare tracce intermittenti ma precise nel confronto con questo autore e con il mondo della commedia: le più significative furono la ripresa del Misantropo a Copenaghen nel 1973 e le due edizioni in lingua tedesca del Tartufo al Residenztheater di Monaco nel 1979 e del Don Juan per il festival di Salisburgo 1983. Bergman vi ha messo a punto un proprio stile rappresentativo alquanto diverso da quello solitamente impiegato nelle sue messinscene, teso da un lato a sottolineare la teatralità convenzionale della recita e della finzione su un palcoscenico fittizio (attori rigorosamente in costumi d’epoca, macchinerie sceniche visibilmente esibite), dall’altro a esasperare il contrasto tra la mascherata, che si riferisce all’età d’oro della commedia come tipo tradizionale di teatro, e la verità di sentimenti che letteralmente esplodono loro malgrado all’interno di un quadro dominato dalla falsità e dall’ipocrisia. L’attualità di Molière emerge dunque da una precisa messa a fuoco della componente giocosamente teatrale che lo caratterizza, per così dire accolta come valore assoluto e incondizionato, perfino caricata nella recitazione di emblemi fine a se stessi, virata però al tempo stesso verso una riflessione amara che porta alla luce, sotto forma di ironia amplificata, una visione profondamente critica e venata di pessimismo. La comicità di Molière è per Bergman il risultato della frizione tra il mondo come appare nel suo assurdo rituale di ataviche convenzioni e il risvolto passionale che vi è sotteso, tanto continuamente in cerca di un barlume di rivolta, di autenticità e di senso, quanto ineluttabilmente votato alla sconfitta. In questo variopinto crogiolo di caratteri straniati e di situazioni farsesche non esistono personaggi positivi e negativi, ma semmai ricettori di segnali più o meno sensibili a immedesimarsi nei loro ruoli, a sentirne la realizzazione e il peso. Perfino i grandi protagonisti individuali delle pièces predilette – l’Alceste del Misantropo, l’impostore del Tartufo, Don Giovanni – venivano avvolti da un dubbio umoristico sulla loro vera identità, sulle volontà e le aspirazioni, lasciando in sospeso la risposta alla domanda sul significato delle loro intenzioni: incapaci, comunque, di offrire una giustificazione ai loro atti e alle loro imposizioni. Nella dimensione corale dello sguardo di Bergman bianco e nero sfumavano in un grigio opalescente e livido, a evidenziare un luogo dell’assurdo, ora bizzarramente parodistico ora pervaso di feroce umorismo, senza via d’uscita. Uno sguardo dal quale Molière usciva ingigantito non come fustigatore dei mali di una società corrotta e malvagia ma come osservatore della follia umana catapultata in un mondo artificiale e privo di speranza, animato tuttavia dalla repulsione per la menzogna e dalla eterna illusione della verità. Ed era ciò che dava al tono della commedia il suo ritmo e la sua vitalità.

Nel teatro di Bergman il prodotto finale è il risultato di un processo scambievole altamente consapevole ed esattamente calcolato nel quale gli attori, adattando i loro personaggi, la loro recitazione e le loro dinamiche emotive al testo, sono guidati dal regista-ricreatore il cui compito, per dirla con le sue parole, è di “”indicare l’idea dello spettacolo per poi funzionare come occhio e orecchio, elemento di rassicurazione, stimolo, coordinatore, caposquadra e, in una certa misura, insegnante”” (MARKER 146). L’analogia più pertinente, più volte richiamata da Bergman stesso, è con il direttore d’orchestra, cui tocca di essere un interprete, non un creatore (ciò non toglie che come molti direttori d’orchestra Bergman sia anche un autore, ossia un creatore di testi personali, inevitabilmente influenzato dai suoi modelli: ma si tratta appunto di un’altra dimensione dell’agire creativo). In quanto interprete, Bergman si sente un ricreatore, non un innovatore: saldamente consapevole di far parte di una tradizione. Sarebbe dunque sbagliato, anche in via di principio, ritenere che Bergman abbia inteso creare un proprio stile teatrale influenzato dalla sua visione del mondo, quando non addirittura segnato dalle sue nevrosi private: questo luogo comune, in gran parte originato dalla forte autonomia dei suoi film, rischia di porre sotto falsi presupposti il metodo e la prassi del lavoro in teatro. Bergman stesso ha più volte messo in guardia dal pericolo di scambiare le tendenze innate o le idiosincrasie per talento. Al contrario, solo la individuazione oggettivata al massimo di ciò che fa parte della più intima essenza di un autore o di un testo può rendere la ricreazione libera ed efficace.
Ciò non toglie che, come il direttore d’orchestra si costruisce il proprio repertorio su una base di affinità e di inclinazioni, anche Bergman nella sua carriera teatrale abbia privilegiato determinati autori e li abbia eletti a portavoce della sua poetica. Tra questi un posto di rilievo spetta, oltre a Strindberg, a Henrik Ibsen, sul quale è volentieri ritornato. Ma proprio l’approccio a Ibsen dimostra come egli abbia a poco a poco spogliato questo autore di ogni sovrastruttura temporale per giungere a mettere a nudo ciò che conta, ossia la parte più riposta e nascosta del poeta, secondo quell’attitudine che rappresenta la più cospicua qualità del Bergman regista di teatro.
Se già nella sua prima avventura ibseniana – un’edizione integrale del Peer Gynt a Malmö nel 1957 – Bergman aveva intravisto un modo nuovo, più libero ed essenziale, di interpretazione, tanto che ai critici l’effetto parve quello di un dipinto ripulito della patina ingiallita prodotta dal tempo, fu negli anni della piena maturità, quando Bergman fu a capo anche come direttore artistico del Dramaten di Stoccolma (1960-1966), che l’operazione di ripulitura prese di colpo slancio. Nel 1964, mentre stava montando Hedda Gabler al Dramaten, “”per la prima volta il volto del poeta si era rivelato dietro la maschero dello stanco maestro-architetto. Vidi che Ibsen viveva disperatamente imprigionato tra il suo accumulo di arredi, le sue spiegazioni, le sue scene artistiche ma pedantemente costruite, i suoi sipari, le sue arie e i suoi duetti. Tutte queste cianfrusaglie ingombranti nascondevano una mania di autoesibizione ben più grave che in Strindberg”” (LM). Bergman cominciò a dare aria a questo ambiente soffocante, a rendere più aperta e dinamica la sua forma, meno verbosi e concettuali i suoi contenuti lirici e sentimentali. La strada imboccata con Hedda Gabler, volta a raggiungere una sorta di liberazione dal naturalismo per puntare risolutamente sulla gelida parabola di un destino nel quale i personaggi si muovono come sepolti vivi in un vuoto mortale, trovò la sua più piena realizzazione in una memorabile edizione dell’Anitra selvatica (1972), destinata a rappresentare una pietra miliare nella storia delle messinscene ibseniane (NOTA). La stilizzazione scenica – ancora una volta pochi elementi isolati su un palcoscenico altrimenti vuoto, sospeso tra luci e ombre – andava nel senso di una concentrazione assai poco realistica sulle figure perdute nel loro mondo di fantasie e di sogni. L’essenza simbolica del dramma diveniva così centrale in ogni momento della rappresentazione e conferiva all’azione il ritmo di un meccanismo a orologeria ben congegnato e fatalmente immodificabile. La tecnica bergmaniana di portare in evidenza primi piani di immagini o sfondi periferici allusivi creava una dimensione interamente nuova della percezione da parte del pubblico del realismo ibseniano, messo a nudo nella sua essenza interiore fino a diventare quasi irreale. Ed erano gli attori a materializzare questa percezione, attirando su di sé l’attenzione con la concertazione dei movimenti, dei gesti, delle espressioni dei volti in un sapiente gioco di luci e di ombre e delle sfumature delle voci. Mai come in questo caso l’obiettivo di Bergman non era quello di offrire un commento ideologico o psicologico al dramma di Ibsen, bensì piuttosto di definire in termini concretamente teatrali la dinamica delle relazioni emotive su cui si fonda il dramma.
Nel 1981 a Monaco, nell’ambito di un progetto che prevedeva la rappresentazione nella stessa serata anche della Signorina Julie di Strindberg e di un proprio adattamento teatrale di Scene da un matrimonio, Bergman realizzò di Ibsen Casa di bambola, ribattezzata per l’occasione Nora. L’evidente intenzione di focalizzare l’attenzione su tre emblematiche figure di donna in un contesto di storie coniugali trovava proprio nella pièce ibseniana la sua massima espressione. La lotta della protagonista per liberarsi spiritualmente ed emotivamente dalla prigione che la circonda trovava anche figurativamente riscontro nel fatto che durante tutta la recita Nora rimaneva circondata dalla presenza silenziosa e in attesa degli altri personaggi al bordo della scena: e questi “”fuori scena”” erano tutt’uno con la rappresentazione attiva delle ossessioni e dei conflitti.

“”La simultanea presenza di tutti i partecipanti al dramma collocava l’azione in una doppia prospettiva profondamente ironica. Uno alla volta, i quattro personaggi che accelerano la disperata lotta di Nora per la sopravvivenza si facevano semplicemente avanti, come fossero stati invitati, e si mettevano di fronte a lei, per poi ritornare a una delle sei semplici sedie sistemate con rigorosa simmetria lungo due lati dello spazio scenico. Lì seduti, tornavano a essere attori in attesa del loro momento, in un dramma in cui il concetto stesso di mascherata e di finzione è, come sottolinea Bergman, la metafora centrale. Allo stesso tempo però questi osservatori erano ancora personaggi, confinati insieme a Nora nel claustrofobico e infernale deserto domestico di Ibsen. Seduti nella sommessa e tenue luce diffusa, queste quattro isolate, impassibili presenze sembravano figure reali solo a metà in un paesaggio di sogno. Erano tutti vestiti in tinta unita, con colori cupi e spenti, che andavano dal grigio pallido di Helmer al nero della signora Linde. Solo l’abbigliamento di Nora, più vivace, controbilanciava l’uniforme mancanza di colore degli ordinari abiti d’epoca, forse […] come segno della sua vitalità e della conseguente capacità di infrangere schemi indistruttibili””. (MARKER 207)

Anche il successivo John Gabriel Borkman, l’ultima produzione a Monaco del 1985, puntava su una regia altamente teatralizzata, nella quale ad emergere era la solitudine del protagonista e la sua inutile lotta visionaria per uscire da un processo di autodistruzione irreversibile. Si poteva cogliere quasi una velata proiezione autobiografica in questo personaggio abbandonato a se stesso e pieno di buoni propositi, in precario equilibrio tra serio e assurdo, costretto con comica ironia all’angoscia di un isolamento da lui stesso scelto per mancanza d’amore.
Nel 1984, dopo nove anni di esilio autoimposto e dieci spettacoli teatrali in lingua tedesca a Monaco, Bergman aveva nel frattempo deciso di tornare a lavorare in Svezia, allestendo sul palcoscenico grande del Dramaten un Re  Lear di Shakespeare che fu visto come l’inizio di una fase di rinnovamento della sua ricerca teatrale. Gli spettacoli successivi confermarono questa tendenza: ancora di Shakespeare Amleto (1986), Lunga giornata verso la notte di O’Neill (1988), Madame de Sade di Mishima (1989), fino alla ripresa del Peer Gynt nel 1991. La novità consisteva in una miscela di ancor più radicale precisione nei dettagli della rappresentazione e di una maggior libertà intuitiva, emotiva, nel rapporto con gli attori. Naturalmente ogni spettacolo aveva una cifra stilistica diversa, sua propria, più o meno formale, ma l’atteggiamento di fondo si uniformava a questa tecnica di perfetta sintesi tra rigore implacabile e violenta, virulenta emotività, orchestrata come se si trattasse di una composizione sinfonica a più voci. Lo sfruttamento del potere di suggestione del teatro raggiungeva, senza mostrare tutto, il vertice. E ancora una volta ciò avveniva con una somma di particolari legati fra loro da una tensione continua e febbrile, ma come anestetizzata nel rito di un’eloquenza e di un’eleganza supremamente distillate, concettualmente forti e chiare. E ciò che risultava da questa impostazione concettuale (soprattutto nelle due tragedie shakespeariane, stilisticamente stridenti e radicalmente antitradizionaliste tanto da sembrare una provocazione) era la visione tutt’altro che eroica della corruzione e dell’ingiustizia del mondo, del suo disfacimento e della sua rovina morale senza alcuno spazio per la catarsi, resi appunto nella disarmonia di stili visivi contrastanti quali specchi della disintegrazione morale e spirituale che il protagonista, uomo moderno in un mondo sbalorditivamente anacronistico, vedeva ovunque attorno a sé. Un panorama dell’esistenza umana listato a lutto da una morte senza speranza, senza consolazione e soprattutto senza redenzione. Caratteristica, nello shock metateatrale di questo Amleto “”postmoderno”” che si concludeva con un frastuono di musica rock e di mitragliatrici dopo che il cadavere di Amleto sistemato su una pedana rialzata era stato bersagliato dai flash dei fotografi e ripreso dai cinereporter, l’individuazione dello spazio scenico descritta dallo stesso regista: “”palcoscenico vuoto, magari con un paio di sedie, ma non necessariamente. Luci fisse, senza filtri colorati, niente effetti ambientali. Un cerchio, cinque metri di diametro, fissato a terra vicino al pubblico. Qui ha luogo l’azione””. (LM).
Su questo spazio svuotato ma non vacuo, Bergman ha sempre più messo in uso le sue strategie per controllare e regolare l’intensità del legame comunicativo tra attore e pubblico, non soltanto istituendo la figura del “”personaggio che osserva”” in silenzio e in attesa (un silenzioso attore-spettatore la cui presenza costituisce in sé un oggettivo commento critico all’azione), ma anche affidando all’attore il compito di essere al tempo stesso soggetto e oggetto della rappresentazione, in modo da creare una sorta di muta identificazione con il pubblico testimone della rappresentazione stessa. Su questo principio si sono imperniate molte delle sue opere; e funzioni di questo tipo avevano per esempio Agnese nel Sogno, Ofelia in Amleto, Cordelia in Re Lear (forse non a caso tutte figure femminili): a un tempo prigionieri e osservatori delle amare esperienze della vita, punti di collegamento tra ciò che può essere percepito da un personaggio e ciò che percepisce attivamente e consapevolmente il pubblico.
Si comprende dunque che questo spazio recitativo per visioni, sogni e ricordi abbia una forte valenza metaforica e insieme personale. In alcuni momenti tocca allo schema coreografico e ritmico dei raggruppamenti e delle relazioni trascendere il linguaggio del testo con la sue espressione diretta di un senso di distanza e di estraneità, o viceversa di comprensione e compassione umana: ed è il momento dell’eloquenza visiva, nel quale il silenzio fa sembrare senza fine l’atmosfera di disperazione.

In teatro niente deve essere vero come nella vita, tranne l’interiore verità e il tormento degli esseri umani.

L’idea di ritornare su certi drammi, come un direttore d’orchestra che si costruisce il suo repertorio (MARKER 47).

La salda consapevolezza di far parte di una tradizione (MARKER 62-63).

Sui drammi da  camera: MARKER 73

Le regie di Bergman inducono a fare paragoni con il lavoro tanto del direttore d’orchestra quanto del coreografo (MARKER 78).

Cinema, qualità onirica del sogno MARKER 91

La rappresentazione deve aver luogo nei cuori, nella immaginazione del pubblico. Fedeltà al testo: un interprete, un ricreatore (MARKER 130), non un innovatore.
1 Sui presupposti teorici che hanno informato la poetica teatrale di Bergman non si hanno notizie dirette. Egli sembra basarsi sulle esperienze del teatro svedese della sua epoca e su una personalissima concezione del lavoro sugli attori.
2 L.L.Marker e F.J. Marker, Ingmar Bergman. Tutto il teatro, Ubulibri, Milano 1996, p. 11.
3 I. Bergman, Lanterna magica, Garzanti, Milano 1990, p. 36. Analoga descrizione si trova nella sceneggiatura del film Dopo la prova.
4 Marker cit., p. 39.

4.Neorealismo scandinavo
Testi inesistenti

5.Le commedie d’autore
Testi inesistenti

6.Nuove frontiere
Appunti

Il posto delle fragole (estate 1957)

Isak (ghiaccio) Borg (fortezza). Ma anche Ingmar Bergman

Triplice immedesimazione. Un personaggio esteriormente modellato sulla figura del padre, ma che è in tutto e per tutto IB. Al tempo stesso questo personaggio è interpretato da Victor Sjöström (mito di B.), che lo fa suo immettendovi le proprie esperienze: “”si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato: non ne era rimasta neppure una briciola!””.

La ricerca del padre: “”l’impulso a scrivere il Pdf. non è che un disperato tentativo di fare giustizia davanti a genitori indifferenti e miticamente ingigantiti””. Appello ai genitori. La scena finale.

Motivo del viaggio. Nel corso della vicenda scorre un unico motivo, plurivariegato: povertà, vuoto interiore, solitudine, sensazione che nulla verrà condonato. A ciò si contrappone l’apparente condizione di successo, che contrasta con lo stato interiore del fallimento.

Nel Pdf. “”mi muovo senza fatica e con una certa spontaneità su diversi piani: tempo, spazio, sogno-realtà. Non sono in grado di ricordare se il movimento in sé mi abbia creato difficoltà tecniche””. I sogni sono sostanzialmente autentici: il carro funebre che si rovescia con la bara aperta, un esame catastrofico, la moglie che fa l’amore in pubblico (già presente in Una vampata d’amore).

7.La tetralogia del silenzio
Appunti

Stile austero, per non dire casto.

Il silenzio (1962)

Timoka, la città straniera (estone).

8. I paesaggi della metafisica
Appunti

L’ora del lupo (1966)

I demoni. I naufraghi. Il paesaggio esteriore (il mare) e quello interiore, soffocato dai demoni.
Ambigua scissione di desideri e sogni. Serie di personalità misteriose, che vengono e spariscono in modo sorprendente, si perdono e si ritrovano. Artisti di varietà?

Analogie con Persona? Collegamenti con molti altri film, tematica sommersa che ritorna periodicamente alla luce (anche nei personaggi).

Incisione di Axel Fridell.

Alma gravida rappresenta ciò che è vivo, la realtà contrapposta al sogno dei demoni. Lettura del diario.

L’adultera (1970)

La vita segreta degli amanti diventa a poco a poco l’unica vera vita, mentre quella vera diventa una vita d’apparenza.

Sussurri e grida (1971)

Quattro donne vestite di bianco in una stanza rossa: la prima immagine, il rosso come l’interno dell’anima. Tre donne che aspettano che la quarta muoia. La macchina da presa immobile, sono i personaggi a muoversi in rapporto all’obiettivo. Sospensione del tempo.
Una persona muore, ma s’impiglia a mezza strada in qualcosa, come in un incubo, e chiede tenerezza, esonero, liberazione… Ci sono altre due persone e le loro azioni e i loro pensieri si trovano in relazione con la persona morta/non-morta. La terza la salva tranquillizzandola, cullandola, accompagnandola per strada. Il castello di Taxinge.

9.Faccia a faccia con la vita
Appunti

L’immagine allo specchio (1975)

Il grido primigenio. I segreti dietro le pareti della realtà. Dietro la tappezzeria dell’altra stanza. Sette sogni.

10. Altre scene di vita
Testo

Dalla vita delle marionette (Aus dem Leben der Marionetten, impropriamente tradotto da noi Un mondo di marionette) è la storia di una depressione. Realizzato a Monaco di Baviera tra il 1979 e il 1980 con attori tedeschi del Residenztheater locale, con i quali Bergman aveva lavorato a lungo in teatro, il film nasce da una costola di Scene da un matrimonio (la coppia secondaria di Peter e Katarina, là appena intravista) ed è ciò che rimane di un più ampio progetto televisivo poi accantonato, dal titolo Amore senza amanti. Peter Egermann, il protagonista, uccide senza apparente ragione una prostituta (K., iniziale dello stesso nome di sua moglie Katarina) alla quale ha fatto visita in uno squallido locale porno dei bassifondi monacensi. Le ragioni di questo gesto, al quale assistiamo in sequenza diretta nel Prologo a colori, sono investigate da diversi punti di vista nel corso di una serie di brevi capitoli a sé stanti, ognuno introdotto da una didascalia e girati in bianco e nero quasi nello stile asettico di un documentario-verità.
Assistiamo così alla ricostruzione della personalità di Peter nell’ambiente che lo circonda: un uomo di successo nel fiore degli anni, apparentemente senza problemi, con un ottimo lavoro, amicizie importanti e una moglie tanto seducente quanto efficiente. Peter è però vittima di un’angoscia che lo divora, a prima vista inspiegabile: una forma di depressione che gli fa apparire, come egli stesso ripete, “”chiuse tutte le strade””. Non trovando più motivazioni nella sua vita, compie in un raptus di lucida follia un gesto insensato che lo consegna senza più volontà a un ospedale psichiatrico. Ha così raggiunto il suo scopo: sottrarsi alla vita e al suo male oscuro.
Per quanto Bergman si sforzi di analizzare le ragioni del gesto coinvolgendo gli altri personaggi (lo psichiatra Mogens, amico di famiglia, che tenta analisi professionali rigorosamente fredde; i rapporti disturbati con la moglie Katarina e perfino con la personalità dominante della madre, famosa attrice in pensione), esso non appare comprensibile se non formalmente, implicitamente riconoscendo la sua natura inesplicabile di fronte alla inadeguatezza delle motivazioni psicologiche addotte per giustificarlo (qui Bergman fa chiaramente dell’ironia sulle consuete spiegazioni ufficiali della psichiatria tradizionale). E’ un sentimento di orrore e di disgusto, quello che domina Peter, che non risparmia nessuna manifestazione razionale della sua vita. Alla base non sta la mancanza oggettiva di motivazioni (l’amore, il lavoro, il successo), ma un senso di vuoto che è tutt’uno con la perdita stessa di senso di ogni cosa: il suo gesto è quindi un modo per suicidarsi senza annullarsi e di rientrare nel grembo materno dell’infanzia (l’orsacchiotto spelacchiato che tiene costantemente con sé in ospedale), forse per dimenticare.
Il film si segnala, al di là del suo schematismo, per una ricerca formale assai sofisticata. Al Prologo a colori fa riscontro con chiara simmetria simbolica l’Epilogo parimenti a colori (preceduto dalla ripetizione della scena dell’omicidio ripresa da altra angolazione), mentre gli episodi in bianco e nero fra essi compresi alternano la tecnica del flash-back, del documentario-verità e del sogno onirico fuori del tempo e dello spazio. Ed è incrociando questi stili che il regista dà ritmo e significato all’azione. Il personaggio di contorno dell’omosessuale Tim acquista particolare rilievo come coscienza  del male di vivere, riverberata nell’incoscienza di Peter con effetto assai più cataclismatico: la sua confessione allo specchio è uno dei monologhi bergmaniani più sentiti e veri. Aleggia su tutto un’impressione di morsa implacabile, di situazione senza via d’uscita, portata a livelli di disperazione cosmica e a tratti veramente insopportabile al di là dei singoli moventi e delle singole scene che la rappresentano.

11. L’addio al cinema
Testo inesistente

12. Opere postume
Testo

“”Un vecchio teatro. Pomeriggio. Attraverso delle imposte invisibili filtra una luce grigia e indiretta che lascia nell’oscurità la graticciata e il muro tagliafuoco. Il pavimento è inclinato. Il sipario tirato su fino a metà. Il palcoscenico è parzialmente ingombro di oggetti, attrezzature sceniche e quinte rimasti dopo la prova pomeridiana, conclusasi un’ora prima. Il grande edificio appare completamente vuoto””. Inizia così la sceneggiatura (1) del breve film (appena un’ora e dieci) che Bergman, dopo l’annunciato ritiro, girò nel 1984 per la televisione svedese, arrabbiandosi moltissimo, senza poterla evitare, per la distribuzione di questa “”pièce per la televisione”” nei cinematografi di quasi tutto il mondo (2). Non senza ragione da parte sua, trattandosi di un dramma da camera scarno ed essenziale con tre soli personaggi (interpretati da due veterani, Erland Josephson  e Ingrid Thulin, e dalla sua nuova scoperta di allora, la giovanissima Lena Olin) in un ambiente unico (il palcoscenico di un teatro, con pochi arredi scenici), adattissimo a essere recitato in teatro (3), nel quale il dialogo è praticamente tutto.
Efter repetitionen (Dopo la prova) si riallaccia idealmente al finale di Fanny e Alexander, nel quale si faceva riferimento al nuovo dramma di Strindberg, Il sogno, come a un possibile soggetto per il nuovo teatro degli Ekdahl. L’azione si svolge appunto dopo una prova di questo dramma, quando l’anziano regista Henrik Vogler (mai come in questo caso una controfigura di Bergman stesso) rimane solo nel grande edificio del teatro. “”Dopo la prova”” – annuncia la voce di Henrik fuori campo, su una inquadratura spiovente dall’alto del protagonista assopito al suo tavolo di lavoro – “”mi piace trattenermi sulla scena per riflettere in pace e con calma sul lavoro della giornata. Sono le ore tra il pomeriggio e il crepuscolo, quando il grande teatro rimane vuoto e silenzioso””. Ma come sempre accade in Bergman, il palcoscenico vuoto si popola subito di fantasmi e di ricordi, che si materializzano prima nel dialogo con Anna Egerman, la giovane attrice che interpreta il ruolo di Agnes, la figlia di Indra, e poi, a ritroso, in una serie di apparizioni che costringono il regista, quasi suo malgrado, a tirare un bilancio dell’inestricabile groviglio tra vita e arte: il tutto concepito, nel fitto ordito di confessioni della sceneggiatura, come una vera e propria summa della poetica teatrale di Bergman. Il bilancio apparentemente fallimentare (non manca un certo vezzo di masochismo e di retorica involontaria) si sospende alla fine in una velata tristezza quando la voce del regista, rimasto solo al suo tavolo di lavoro, afferma che ciò che lo preoccupa di più, in quell’istante, è di non riuscire più a sentire il suono delle campane della chiesa: è la vecchiaia che incombe dunque ad attutire le ferite del sentimento? O è ormai prossima la notte?
Questo conciso dramma da camera scritto per il teatro e filmato per la televisione con la tecnica del cinema da camera (ciò lo rende già di per sé una specie di quintessenza dell’arte di Bergman) si dipana come una forma-sonata in tre parti, o meglio in tre dialoghi. Il primo è tra il regista e la giovane attrice che potrebbe addirittura essere sua figlia, e si diffonde in considerazioni sulla finzione del teatro e la verità della vita (Esposizione). Il secondo (Elaborazione) è tra l’uomo e la sua ex amante Rakel, ex attrice e madre di Anna, morta alcolizzata alcuni anni prima: ora la realtà si confonde con la memoria nella rievocazione di un rapporto tormentato, fatto di slanci di tenerezza e di crudeli durezze: “”Le cose di sempre che si ripetono. Andarle dietro e chiamarla per nome. E poi di nuovo menzogne e inutili riconciliazioni, coscienza in subbuglio, paura, maledizioni represse e infine la pietà: sempre lo stesso meccanismo””. Il terzo dialogo (ancora tra Henrik e Anna, dopo la parentesi onirica) costituisce la Ripresa: Anna confessa a Henrik di essere incinta, poi di avere già abortito; insieme fantasticano su una irreale vita in comune, da amanti, immedesimandosi nella parte, ma senza illusioni; poi, tornati alla realtà, si separano con tenerezza. “”Non voglio che tu sia triste””, dice Anna prima di andarsene. Rimasto solo, Henrik si interroga su un’impossibile salvezza (la metafora, forse religiosa, del suono delle campane che non può più udire), pronto a ricominciare alla prossima prova. Il film finisce là dove era incominciato.
Si tratta però nel complesso di una sonata che potremmo definire di tipo schubertiano, nella quale all’esposizione dei temi (quello principale di Henrik, quelli secondari di Anna e Rakel) segue tutta una serie di divagazioni e di perifrasi, di allontanamenti e di ritorni, che sospendono il corso del tempo (la pausa dopo la prova assorbe al tempo stesso tutto il teatro immaginabile e tutto l’arco della vita, dall’infanzia alla morte) e introducono la dimensione della memoria (espressivamente, il flash-back) come mezzo di ricapitolazione (Henrik bambino, interpretato dall’Alexander di Bertil Gruve, ammaliato dalla magia del teatro; Anna bambina, che assiste spaurita ai litigi dei genitori) e di sviluppo (Henrik adulto, alle prese con il dramma del Sogno, che riflette sui problemi della rappresentazione e li mescola con la sua vita passata e futura, in tal modo elaborandoli). Mai come in questa breve rappresentazione che racchiude un atto d’amore onnicomprensivo Bergman, sdoppiato tra l’attore-regista Henrik e la sua voce fuori campo, rivela l’assoluta indivisibilità tra il mestiere dell’artista (che qui riunisce tutti i mezzi a sua disposizione, in un intreccio inseparabile) e il mestiere di vivere, tra morti che tornano come spettri a tormentarsi nella finzione del teatro e  vivi che sembrano orami incapaci di esistere al di fuori di questa salvifica finzione (crudamente, Anna ha abortito anche per non compromettere la sua partecipazione alla realizzazione dello spettacolo) (4). Unica salvezza nella miscredenza, ora che il suono delle campane della chiesa non è più udibile e che il dubbio interiore torna a farsi sentire, appare la fedeltà al proprio mondo di ideali (spesso non realizzati) e di ricordi: l’amore sconfinato per gli attori (“”Li amo molto, li amo per quello che sono, per il coraggio, la serietà professionale e il disprezzo della morte che sembrano avere… Li amo con tutte le mie forze, perciò non potrò mai far loro del male””, afferma Henrik), la gratitudine per il miracolo che ogni volta avviene sulla scena, inglobando perfino l’oceano in tempesta del vissuto. Nel subbuglio della coscienza scatenato dal tempo sospeso dopo la prova, quando il silenzio del palcoscenico si popola di spettri e di tutte le energie spirituali in esso latenti e ciò che un momento prima sembrava chiaro diventa bizzarro e del tutto incomprensibile, l’unica certezza nel dubbio è che presto inizierà un’altra prova: anche se la morte rosicchia come un acido topo, continuare a recitare è un’esigenza morale, fino all’ultimo crocicchio.

Il tema, o problema,  dell’al di là, rimasto tra le pieghe di Dopo la prova, si manifesta dolorosamente nell’altro film per la televisione diretto da Bergman nel 1986, De två saliga (I due beati, da noi editato come Il segno). Opera ascetica, scabrosa nella sua disadorna purezza, di forte impatto figurativo nei suoi toni smorzati e funerei, oscillanti tra il verde marcio e il grigio: forse il film più deprimente dell’ultimo Bergman. La scarsissima circolazione di questo telefilm mai uscito nelle sale (coprodotto dalla RAI, ma rimasto sepolto nei suoi magazzini) richiede un breve riassunto del contenuto, ispirato al romanzo omonimo di Ulla Isaksson (di trama vera e propria non si può parlare). Viveka (Harriet Andersson) e Sune (Per Myrberg) si incontrano casualmente nella cattedrale di Uppsala. Entrambi, nelle loro solitudini, sono alla ricerca disperata di un segno divino. “”Lei crede sinceramente in Dio?””, le domanda l’uomo. “”Non si può vivere senza Dio””, risponde Viveka. E Sune ribatte: “”E’ vero, nessuno esisterebbe senza un creatore””. Ma sono parole prive di un contenuto tangibile. Stacco. In treno, Viveka e Sune si raccontano la loro vita. Entrambi provengono da una famiglia di pastori (il padre di lei, il nonno di lui) e sono cresciuti con l’ossessione di Dio. Viveka rivela di avere una macchia scura nell’occhio, che non le impedisce la vista ma non è bella a vedersi: ma Sune la trova bella quando sorride. Stacco. Nella camera da letto di lei. Viveka e Sune hanno fatto l’amore. Viveka racconta che quando era bambina aveva un cuscino nel quale era ricamato l’occhio onniveggente di Dio. Poi passa a parlare dell’amore. Una volta si era innamorata, ma venne abbandonata. Ora non crede più nell’amore su questa terra. “”Ma deve esistere””, ribatte Sune, “”non si può vivere senza amore””. E’ mai stato innamorato, lui? Sune risponde che non gli è ancora mai capitato. Viveka mostra a Sune il cuscino con l’occhio di Dio. Stacco. Sono passati sette anni. Viveka e Sune si sono sposati. E’ l’anniversario del loro matrimonio, ma Viveka, che è contraria alle ricorrenze, non vorrebbe celebrarlo. Nel regalo che Sune le ha fatto – un sacco a pelo – scopre ciò che crede la prova di un tradimento, un capello biondo. Lo nasconde nel risvolto del lenzuolo. La tensione monta mentre stanno facendo colazione. La visita della sorella di Viveka, Annika, venuta per augurarle buon compleanno, la irrita ulteriormente. Per calmarla, Sune la invita a parlare, a sfogarsi, a confessarsi (come in un rituale, ella si è posta sul capo un velo nero). Viveka rievoca l’infanzia infelice e afferma che avrebbe voglia di picchiarlo, dice di provare la stessa sensazione di quando da bambina sputò in faccia all’immagine di Dio sul cuscino e poi cominciò a pestarlo, per uccidere Dio. Poi accusa il marito apertamente di tradimento e gli chiede di divorziare, perché “”l’amore sta morendo””. Sune risponde con dolcezza che non la lascerà mai, nel bene e nel male. Stacco. Scoppia una nuova lite per futili motivi di gelosia. Lui esplode, poi si riappacificano e si abbracciano. Nella scena successiva Viveka incontra la sorella Annika per chiederle scusa del suo comportamento, ma quando Annika riferisce di aver incontrato Sune e afferma che a causa sua Sune è sull’orlo di un collasso nervoso, Viveka si ingelosisce, la percuote selvaggiamente e la scaccia.
La situazione è precipitata. Dalla buca delle lettere escono disegni di occhi di ogni forma. Viveka vive ormai in preda alla follia, crede che di notte spiriti maligni versino dell’arsenico sul loro letto. Disfa il letto e cerca di riparare il tavolo appendendo un ombrello al soffitto. Si sente perseguitata dai demoni, li sente alitarle sul collo, il mondo sta cercando di uccidere l’amore che è in loro e di separarla da lui. Ma non oseranno impadronirsi di lei finché Sune le resterà accanto; solo che ora dovrà scegliere: o lei o il mondo. Chiede al marito una prova, dovrà portare come lei occhiali scuri e dormire nel ripostiglio, dove è appeso il cuscino con l’occhio di Dio. Sune accetta: niente può minacciare chi ha scelto l’amore. I due sono ora rinchiusi in casa da due giorni senza cibo. Viveka è sempre più vittima di allucinazioni. Sune riesce a convincerla a farlo uscire per comprare qualcosa da mangiare. Viveka crede che voglia andare a trovare la sua amante. Afferra un coltello e telefona alla polizia dicendo che il marito vuole ucciderla. Viene immobilizzata e ricoverata in un ospedale psichiatrico; e a nulla servono le assicurazioni di Sune che la moglie non è pazza. Ma anche in lui la fede vacilla. Ad Annika che lo esorta ad abbandonare Viveka, Sune risponde: “”Vedo che il mondo sta crollando, il vero pericolo sta nel non fare niente””. Si reca alla scuola dove insegna Viveka, entra nella sua aula e scrive sulla lavagna, come una formula: “”L’amore vince tutto””. Tornato a casa, prende un pennello e con il manico di legno intinto nell’acido si ferisce l’occhio destro, per provocarsi una macchia come quella della moglie. Poi si reca all’ospedale e annuncia alla moglie di essere riuscito a superare la prova. Ora potrà riportarla a casa, non prima però di essersi disfatti entrambi degli occhiali scuri, di cui non hanno più bisogno. Si è infatti fatto chiaro. A casa Sune e Viveka scrivono una lettera: “”L’amore non può sopravvivere in questo momento e noi due dobbiamo morire. La morte è la nostra vittoria. Chiediamo di essere sepolti insieme, nella stessa bara””. Mentre Sune spegne due candele, Viveka apre il rubinetto del gas. Poi si sdraiano uno accanto all’altra, ma senza guardarsi, in attesa della morte. Li accompagnano le note della musica di Bach, come all’inizio del film.
Sta scritto nel Vangelo: “”Strappa il tuo occhio””. Nonostante la densità dei simboli (proprio il Vangelo è citato di continuo dai due protagonisti: ma si tratta di citazioni prive di reale riscontro), I due beati (o Il segno; e forse riunendo i due titoli si potrebbe tradurre I segnati) è un film di lucidità assoluta, che svolge un concetto: l’impossibilità dell’amore sulla terra se non con un atto di fede che riscatti il silenzio di Dio. Ma l’opera è anche una testimonianza autobiografica (Burnam è il cognome dei due protagonisti) sulla preparazione alla morte e sulla scelta del suicidio (tema assai sentito da Bergman in quest’epoca, dopo la morte della moglie) come via d’uscita al completo dominio delle ossessioni e dei demoni. Per quanto Bergman cerchi di dare spiegazioni sulla loro origine, è il progressivo arrendersi all’impotenza di fronte all’attacco dei demoni il vero nucleo del film, la sua oggettiva essenza. “”Le cose non sono mai folli per se stesse, lo sono soltanto se viste dal di fuori””. Tutto ciò che Sune può fare per congiungersi alla menomazione (dell’anima, oltre che dell’occhio) di Viveka è ferirsi, diventare come lei e, compiuta la prova (in un certo senso, l’altra faccia di un “”dopo la prova””) consegnarsi vittoriosamente alla morte (“”La morte è la nostra vittoria”” è l’ultimo messaggio lasciato al mondo). Ciò che appare come una sconfitta amara, è in realtà un atto di amore, un trionfo dell’amore che vince tutto, anche la morte. E in questo amore vive l’occhio di Dio.
Larmar och gör sig till, il cui titolo (alla lettera S’agita e si pavoneggia; nella versione italiana Vanità e affanni) proviene da una citazione tratta dal Macbeth shakespeariano (1), è un film-video realizzato per la televisione svedese (non destinato dunque ai normali circuiti cinematografici) nel 1997 sulla base del dramma omonimo pubblicato da Bergman nel 1994 nella raccolta intitolata Femte akten (2). Temi da sempre cari alla sua  produzione, qui decantati in una sorta di ultima analisi (stilisticamente influenzata dall’impiego delle nuove tecnologie, l’elettronica e il digitale), s’intrecciano con reminiscenze di cronache familiari (vi compaiono, oltre al protagonista Carl Åkerblom, nella realtà lo zio prediletto di Bergman, anche la nonna e la madre del regista) e con una riflessione profonda sull’essenza e il destino dell’arte, che si materializza nella figura simbolica del compositore Franz Schubert. Siamo alla fine del mese di ottobre del 1925. Ricoverato in un ospedale psichiatrico di Uppsala per “”debolezza di nervi””, l’ingegnere e inventore Carl Åkerblom passa il tempo ad ascoltare e riascoltare, mettendo e togliendo come un automa il disco gracchiante su un vecchio grammofono, le battute pianistiche iniziali dell’ultimo Lied della Winterreise (il Viaggio d’inverno) di Schubert: nella sua lucida follia si identifica schizofrenicamente con il musicista prossimo al naufragio e alla morte, come lui malato e incompreso, costretto a lasciare incompiuti i suoi meravigliosi progetti. L’inventore Carl vagheggia infatti la realizzazione di un’idea fantastica che l’ossessiona da tempo, il “”film parlante dal vivo””: mentre la pellicola scorre muta sullo schermo, ad essa si sovrappongono non solo la musica eseguita in diretta da un pianoforte nascosto ma anche le voci degli attori che, invisibili dietro la tela, recitano in un microfono, nello stesso istante, le battute mimate dagli attori. Il microfono cattura le parole e le trasmette, per mezzo di un amplificatore, a un altoparlante in sala; ed ecco l’invenzione: la cinematografia parlante!
A sostegno del progetto di Carl giunge il vecchio professore universitario in pensione Osvald Vogler, uno studioso di scienze occulte non meno balzano, il quale in quel manicomio ideale che è la sua mente passa invece il tempo a fantasticare sulle memorie (chiaramente para-schnitzleriane: la Contessina Mitzi di Schnitzler uscì nel 1909) di una certa contessina Mitzi Veith, morta suicida nella Vienna del 1908: nota cortigiana di professione e nonostante tutto risultata all’autopsia ancora vergine. Perché non intrecciare in un’impresa comune le due ossessioni e creare un “”cinedramma parlato”” nel quale Schubert si innamori, ricambiato, di un amore impossibile per la contessina Mitzi e riviva sul letto di morte come in un flash-back la sua vita, assistito dalla ragazza che gli suona la sua musica prima di precederlo nella tomba? Nasce così il Primo Film Parlato dal Vivo della Storia del Cinema, La gioia della ragazza allegra, con Carl Åkerblom nella parte di Schubert, la sua fidanzata Pauline Thibault nel ruolo di Mitzi e Osvald Vogler in quelli sdoppiati del frivolo barone Siraudin, scrittore alla moda e “”protettore”” della ragazza, e dell’ottimo e unanimemente rispettato organista Marcus Jacobi, amico e collega di Schubert (3). Ma la sera di una replica, che ha luogo mentre infuria una tempesta di neve nel villaggio dell’infanzia di Carl (e di Bergman) davanti a undici spettatori paganti, appena concluso il prologo con Schubert/Carl disteso sul letto al confine tra la vita e la morte e rapito dall’ascolto dell’Andante della sua ultima Sonata in si bemolle maggiore, il proiettore prende fuoco per un cortocircuito dell’impianto elettrico e la proiezione si interrompe per l’incendio della sala. Che fare? Rinunciare allo spettacolo? Neanche per idea. La rappresentazione deve aver luogo comunque: e ad assicurarla provvederanno, con i “”rudimentali”” accorgimenti del teatro, gli interpreti stessi, non più voci parlanti dallo schermo ma attori in carne ed ossa di una scena improvvisata al lume di candele natalizie. Solo che, passando dal cinema al teatro, cambia con il mezzo di comunicazione anche la sostanza della rappresentazione, che dalla finzione di una passione folle e impossibile (l’amore tra Schubert e la contessina Mitzi, incredibile già cronologicamente) si tramuta in una meditazione sulla vita e sulla morte, e sulla giustificazione dell’opera d’arte. Una trama di pochade costruita sul grottesco si trasforma così nell’analisi profonda di un modello tragico.
I risvolti che questa riflessione sui rapporti fra cinema e teatro, e sui tempi mitici dell’avvento del sonoro, implica autobiograficamente nel Bergman autore sono evidenti, anzi marcati. “”Il teatro, il palcoscenico, gli attori e i film, i cinematografi e la cinematografia”” – ricorda ancora Bergman – “”mi hanno accompagnato dall’epoca in cui costruii il mio primo teatro di burattini sotto il tavolo dipinto di bianco nella mia cameretta di bambino, per poi trasferirmi, qualche anno dopo, nello spazioso vestibolo insieme a un piccolo macchinario di lamiera dotato di una manovella, di una croce di Malta, di una lente, di una lampada a petrolio e di una bobina di pellicola color seppia. Nel corso degli anni le circostanze e gli ambienti sono diventati – come dire – più grandiosi, ma lo stato d’animo in sé e per sé è rimasto lo stesso. Ma che stato d’animo? La passione? Il piacere? L’amore? L’ossessione? Suona esagerato, ma forse è il termine giusto: l’ossessione”” (4). Sotto questo riguardo Vanità e affanni è un ritorno da vecchio nel grembo dell’infanzia e nello stesso tempo una dichiarazione di fedeltà allo stato d’animo: venata appena da un’ombra di complice autoironia, come quando nel film Bergman fa dire a uno spettatore (il sacrestano), al momento del congedo, che la rappresentazione teatrale gli è piaciuta più di quella cinematografica. Se la magia consolante, antica del teatro viene opposta alla novità rivoluzionaria, strepitosa del cinema (e qui Bergman, tutto sommato, sembra indirettamente spezzare una lancia in favore del cinema muto, compagno inseparabile della sua vecchiaia), questo tratto, più che frutto di una scelta impossibile, sembra essere il risultato di una ennesima celebrazione del rito del teatro e della sua comunità, suffragata dalla nostalgia per l’epoca pionieristica del cinematografo, dominio sconfinato delle ombre misteriose.
Ma altri temi cari, si diceva, ritornano in questa stilizzata doppia rappresentazione di un’ossessione: l’inafferrabilità di Dio; i demoni e la malattia; il caos e la disintegrazione della vita; la paura della morte; la fantasia e la follia come premesse, spesso misconosciute, dell’invenzione artistica; l’identificazione fra l’artista creatore e il suo destino ambiguo, rispecchiato emblematicamente proprio in Schubert. Schubert, ribadisce Carl nella sua esaltazione, è nostro fratello Franz: un caldo miraggio di salvezza nella deriva e nel naufragio. Egli è l’emblema dell’artista creatore che Carl e Bergman sentono a loro vicini: il veggente che attinge la creatività interiore alla fonte del sacro e riscatta con l’arte il caos, il tedio e l’irrilevanza del mondo nel crepuscolo del reale (5). “”Non sto affondando, non sto affondando, sto salendo””, sono le ultime parole messe in bocca a Schubert nella finzione cinematografica. Nell’epilogo Carl, fallito ormai definitivamente il suo grande progetto, si consegna alla morte rievocando le tenerezze dell’infanzia e mormora le stesse parole – “”sto affondando”” – disteso su un logoro giaciglio: ad accompagnarlo nei suoi ultimi istanti non sarà la musica di Schubert, ma l’amore irrazionale e sconfinato di Pauline. L’ultima sequenza, nella quale l’inquadratura dall’alto dà esattamente l’idea dello sprofondare, compone, come in una Pietà classica,  una scena di naufragio di compassionevole rinuncia e rassegnazione.
Simbolo della morte in agguato (e ogni volta accompagnato nelle sue fantomatiche apparizioni dalle note desolate dell’epilogo della Winterreise) è il clown Rigmor (Rig-mor: forse una contrazione di “”Rigor mortis””?), ennesima incarnazione dei clown bianchi bergmaniani (indossa un prezioso costume di seta argentea ed è truccato con il cerone bianco sul viso, mentre occhi, orecchie, bocca e unghie sono nere). La morte-Rigmor che prima scherza in modo grottesco con la vita, facendosi possedere carnalmente da Carl in manicomio, e poi scandisce i funebri rintocchi delle stazioni del naufragio, è insieme un ammonimento e una realtà ineluttabile: essa riconduce le allegre follie di Carl a una presenza costante (Alla presenza di un clown è il titolo dato al film nelle versioni inglese, tedesca e francese), ricordandogli che neppure le sue strabilianti invenzioni riusciranno a esorcizzare il suo destino di segnato. Tenuto in continuo equilibrio tra commedia e tragedia (un altro tratto distintivo dell’ultimo Bergman, che qui si ritaglia un’apparizione alla Hitchcock nella prima parte ambientata tra i matti dell’ospedale psichiatrico), il film, nella sua narrazione di stile evidentemente televisivo, tutto in interni, è impreziosito da alcune gemme tipicamente bergmaniane: il dialogo tra Pauline e la madre di Carl, che getta una luce fredda e tremenda sui conflitti familiari dell’infanzia del regista, la carrellata sugli spettatori con i primi piani dei volti in una concentrazione assorta, malinconica ma indescrivibilmente piacevole (che ricorda gli stacchi sui volti degli spettatori nell’ouverture del Flauto magico), l’atmosfera calda e intima – sorta di laica ultima cena – che precede l’allestimento della rappresentazione teatrale (da antologia è il cammeo del monologo recitato nell’intervallo da Lena Endre), fino a tutta l’ultima scena, attraversata da scatti di vana violenza e di fosca disperazione. In questa sconsolata meditazione del vecchio Bergman sulla morte si staglia la figura di riferimento di Franz Schubert, simbolo di una fratellanza ideale. Ed è in questa comunanza artistica, sottolineata dalla calma trasfigurazione della musica, che nasce un implicito appello al valore dell’arte come giustificazione della vita: l’unico mezzo di immortalità lasciato all’uomo.

1) Ingmar Bergman, Dopo la prova, in Il quinto atto, pag. 19.
1) “”Spegniti, spegniti, corta candela! La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante, che per un’ora sola s’agita e si pavoneggia sulla scena [vanità e affanni mostra sulla scena], e poi più nulla: è una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”” (Shakespeare, Macbeth, V, 5). La citazione è interamente riportata all’inizio del film.
2) Il quinto atto: lo si può leggere tradotto in italiano da Laura Cangemi, Garzanti, Milano 2000. Della raccolta fanno parte anche un breve Monologo autobiografico, la sceneggiatura del film televisivo Dopo la prova e l’atto unico L’ultimo grido. Il titolo complessivo proviene anch’esso da una citazione, in questo caso dal quinto atto del Peer Gynt di Ibsen: è la battuta sarcastica rivolta dal Passeggero Ignoto al protagonista che teme di morire nel naufragio della nave che lo sta riconducendo a casa, “”Oh, per questo stia pur tranquillo: non si muore a metà del quinto atto””.
3) La pièce mescola personaggi d’invenzione e realmente esistiti nella Vienna del tempo che fu. Nel titolo è evidente l’allusione scherzosa all’operetta La vedova allegra di Franz Léhar.
4) Il quinto atto cit., pag. 16.
5) Per una trattazione più estesa dei significati sottesi all’immagine bergmaniana di Schubert si veda l’epilogo del mio libro L’altro Schubert, EDT, Torino 2002.

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