Sulla strada della sinfonia

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L’opera sinfonica di Franz Schubert è costituita da sette partiture complete più l’Incompiuta. Fra queste, nel complesso, si possono identificare grosso modo tre periodi: una prima fase giovanile, culminante nella Terza sinfonia in re maggiore; una prima maturità, inaugurata dalla Quarta in do minore detta «Tragica» e conclusa dalla Sesta in do maggiore detta «La piccola»; una piena maturità, ossia l’ultimo, massimo periodo articolato su due capolavori assoluti come la Sinfonia in si minore «Incompiuta» e la Sinfonia in do maggiore «Grande». Una propaggine mutila ed enigmatica di questa fase suprema si erge nei frammenti in re maggiore D. 936:1 stesi nell’estate 1828, fra il completamento della Grande e l’insorgere dell’ultima malattia: spunto per uno dei più geniali e intensi lavori di recupero e reinterpretazione in chiave moderna di Luciano Berio. Il suo Rendering per orchestra (1988-091) restituisce una dimensione schubertiana insieme universale e storica, con mezzi espressivi cementati da innesti associativi e da tecniche compositive miste che ne rendono percepibili sia la distanza sia la prossimità. Rendendo così Schubert nostro contemporaneo.

Le tre Sinfonie della giovinezza, ancora condizionate, almeno in superficie, dai modelli classici di Haydn e di Mozart, restano racchiuse fra il 1811 e il 1815: fra i quattordici e i diciotto anni di età per quel che riguarda l’anagrafe del compositore; fra l’apogeo della parabola di Napoleone e la sua disfatta a Waterloo per quanto riguarda la storia d’Europa; fra l’uscita di Beethoven dallo sperimentalismo conflittuale del suo periodo «di mezzo» e la conquista graduale, continua di quello che sarà definita il suo «tardo stile» per quanto riguarda la musica viennese che fece da sfondo all’adolescenza di Schubert.

Le tre della prima maturità, dalla Quarta alla Sesta, nascono fra il 1816 e il 1818: le crea uno Schubert non più minorenne, in quel tempo della Restaurazione che convenzionalmente s’identifica con l’avvento dei temi estetici e delle conseguenti scelte linguistiche della musica romantica, in una Vienna in cui Beethoven e il suo lavoro sulla forma sinfonica sono una presenza attiva e consolidata, un’attualità suscettibile al tempo stesso di entusiastica ammirazione e di reverente presa di distanza, non foss’altro per non rimanere schiacciati dal confronto.

Le due pagine finali, nate a cavallo del primo quarto del secolo, appartengono decisamente a un mondo nuovo, in cui l’architettura formale e lo spazio sonoro si aprono ad accogliere i segnali più profondi di una mutata concezione del tempo, delle relazioni, delle corrispondenze e delle simmetrie, perfino dei simboli, abbandonando l’astrazione logica della costruzione classica per tendere a una dimensione informale, atemporale e virtualmente infinita: in una parola, romantica. Nell’opposizione tra movimento dinamico lineare e movimento statico circolare, opposizione che diviene alla fine identità, Schubert sembra aver letteralmente rappresentato in queste due Sinfonie, tanto diverse fra loro quanto miracolosamente intatte da ogni influenza beethoveniana, il ciclo del tempo che scorre: un arco nel quale si finisce sempre per essere nello stesso e in nessun luogo. In definitiva, si potrebbe affermare che prima vi sia una linea formata da una serie di punti, poi una linea orizzontale continua e finalmente un cerchio. La perfezione, il compimento della sfera.

Il succedersi delle diverse edizioni complete e dei cataloghi ha via via ingenerato, nella numerazione con la quale sono state presentate al pubblico le due ultime Sinfonie, un po’ di confusione. La Sinfonia in do maggiore «Grande», composta negli ultimi anni di vita, terminata nel marzo 1828 e rimasta ineseguita, fu scoperta da Schumann nel 1839 e pubblicata prima dell’Incompiuta, che la precedeva come data di composizione (1822) e che vide la luce pubblica solo nel 1865: sicché per qualche tempo fu nota come Settima. In seguito questo numero fu applicato alla frammentaria Sinfonia in mi maggiore del 1821 completata da Felix Weingartner (ma mai veramente accolta nel corpus delle Sinfonie di Schubert), lasciando l’Incompiuta all’ottavo posto e spostando la Grande al nono (tant’è vero che appunto come Nona ormai tutti la conoscono), poi addirittura al decimo per chi ha voluto riconoscere l’esistenza di una autonoma «Sinfonia di Gastein», risalente all’estate 1825 e in realtà coincidente con la Grande a un primo stadio di crescita.

La collocazione cronologica e, ancor più, le strategie compositive, l’orizzonte culturale e le implicazioni psicologiche fanno di Schubert il ponte più importante e rappresentativo fra l’età di Haydn, Mozart e Beethoven e tutto il successivo sviluppo della musica dell’Ottocento, arrivando da un lato a giustificare retrospettivamente, dall’altro ad annunciare profeticamente quasi un secolo e mezzo di esperienze creative. Lungo il decorso della sua opera sinfonica questo ruolo appare forse meno appariscente che in altri settori della sua produzione, ad esempio il Lied, ma certo rimane altamente significativo. La musica strumentale costituisce uno degli apici della ricerca compositiva schubertiana: Sonata per pianoforte, Quartetto per archi, Sinfonia sono i campi nei quali la sua opera si estende ad abbracciare passato e futuro, fondendo capitoli storici apparentemente distinti se non opposti fino giustificare e imporre la definizione di un’ininterrotta «età classico-romantica che trova giusto nella sua Vienna l’alfa (gli edifici limpidi e armoniosi di Haydn) e l’omega (il disfacimento formale, linguistico e culturale di Mahler), passando attraverso gli snodi complementari di Schumann, Brahms e Bruckner. Senza Schubert questa successione apparirebbe improponibile e incomprensibile. Che poi una serie di tragicomiche sfortune e di
amare avversità abbia ritardato per anni, non per decenni, la conoscenza sistematica della sua opera, e in particolare del suo catalogo sinfonico, resta una delle vicende più umilianti della storia della cultura ottocentesca, cui però si è posto rimedio successivamente, in un’ottica finalmente oggettiva, chiara e moderna.

Nel gennaio 1839, trovandosi a Vienna, Robert Schumann andò in casa del fratello di Schubert, Ferdinand (Franz era morto da quasi undici anni), e cominciò a rovistare fra i numerosi autografi che questi custodiva. Sepolta in una «pila enorme» di manoscritti, Schumann scovò una Sinfonia di cui nessuno aveva mai sentito parlare. «Chissà per quanto tempo ancora sarebbe rimasta in quell’ angolo oscuro e polveroso, se io non avessi subito persuaso Ferdinand Schuhert a spedirla alla direzione dei concerti del Gewandhaus di Lipsia, o anche allo stesso artista che vi presiede», ricorda Schumann. L’artista in questione era Felix Mendelssohn, che con l’intelligenza e la dedizione che gli erano proprie s’incaricò subito di dirigerla. Era il 21 marzo 1839. «La Sinfonia giunse dunque a Lipsia, dove fu eseguita di fronte a un pubblico che ne riconobbe l’alto valore artistico, e che la riascoltò ammirato, in un clima di quasi generale consenso. Gli intraprendenti editori della Breitkopf & Härtel coniperarono il lavoro e i diritti di proprietà, sicché oggi sono già disponibili le parti d’ orchestra e presto lo sarà forse anche la partitura, a vantaggio e diletto del mondo intero». L’auspicio di Schumann doveva rivelarsi troppo ottimistico: la partitura non fu edita che nel 1850, e il mondo intero stentò alquanto – anche in seguito – a procurarsi il vantaggio e il diletto di conoscere uno dei capolavori di tutta la storia della sinfonia.

La Grande è nota come la Sinfonia delle «lunghezze celestiali». Probabilmente se Schumann, che coniò con le migliori intenzioni la famigerata espressione «himmlische Länge», avesse immaginato i fraintendimenti ai quali avrebbe dato adito, l’avrebbe ritirata. Quest’ultima Sinfonia è la riprova di quanto il concetto di grandezza si sposasse nell’ultimo Schubert con l’idea di classicità, con un valore aggiunto romantico: quasi a consacrare lo stile, la maniera «grande» con una fusione dei due principi. Le dimensioni dell’organico (legni e ottoni a due, però con l’aggiunta di tre tromboni), la strumentazione florida e la rigogliosa sostanza tematica denotano già di per sé un’opera di proporzioni grandiose. L’ampiezza e l’estensione della forma non nascono solo dalla ricchezza del sentimento che vi è profuso (e che, ancora secondo l’immaginifico Schumann, ricrea l’animo come «un ponderoso romanzo in quattro volumi, ad esempio di Jean Paul»), bensì soprattutto dalla naturale espansione di una disciplina formale che racchiude questo senso sparso di ricchezza in unità strutturale: tanto allargata quanto organicamente compiuta. Gli sviluppi e i contrasti drammatici, tutt’altro che assenti, neppure nel cavalleresco secondo tempo, sono integrati con il principio dello svolgimento ciclico, basato sulle metamorfosi di un motivo elementare che appare all’inizio della vasta e solenne introduzione, intonato favolosamente dai due corni soli. E questo motivo misterioso, una vera e propria «idea primordiale» mutuata per ampliamento dalle note iniziali della Jupiter di Mozart nella stessa tonalità di do maggiore, a conferire unità a tutti i movimenti.

Le proporzioni colossali della Sinfonia «Grande» di Schubert – quanto a durata neppure Beethoven con l’Eroica era giunto a tanto, e la sua Nona è un caso a parte – denunciano la volontà di scrollarsi di dosso definitivamente ogni tendenza all’intimismo soggettivo, all’introspezione paralizzante, per creare, pensando «in grande», una musica capace di occupare spazi e tempi dilatati con segnali forti, positivi e costruttivi. Nel quadro generale del pessimismo schubertiano, questa Sinfonia configura un estremo atto di fede nella tenuta della forma, al di là dei simboli destabilizzanti che pure la insidiano. Nel suo vitalismo sfrenato, nelle danze dalle movenze gioiose e macabre, permane anzi una sorta di fervore ottimistico, di sovreccitazione continua che si impone, questa volta, di guardare coraggiosamente in faccia la sfinge per imporre un ordine prestabilito: la sfida a Beethoven era raccolta, ma era indirizzata verso altri lidi. Anche se con rotte diverse, è da queste sponde che salperanno Brahms e Bruckner, e quindi Mahler, per nuovi, avventurosi viaggi al di là delle colonne d’Ercole della Sinfonia.

Amadeus a. XVI, n. 9 (178), Settembre  2004

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