Teatro come sogno: Fierrabras di Schubert

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Per il teatro, Franz Schubert compose undici lavori e altri sette ne lasciò incompiuti. E ciò in un arco di tempo che va dal 1812 – aveva allora quindici anni – all’anno della morte, il 1828. Una ventina circa di titoli drammatici in una quindicina d’anni non sono pochi, neppure per le abitudini dell’epoca; senza contare il resto della produzione schubertiana. Ma questo non è l’unico motivo per affermare che l’opera non fosse affatto un genere estraneo alla natura e agli interessi di Schubert, come spesso si suole ripetere. È anzi vero il contrario. In ogni momento decisivo o cruciale della sua carriera egli si affrettò a progettare un’opera, e talvolta più d’una, nella convinzione che il successo sarebbe finalmente giunto. Fu così nel 1821, con Alfonso und Estrella; mentre nel 1822, sull’onda dell’entusiasmo suscitato da una ripresa del Fidelio a Vienna e dal trionfo del Franco cacciatore di Weber, cui seguirà di lì a poco l’Euryanthe, Schubert mise in cantiere (lavorandovi per tutto il 1823) un Singspiel (Die Verschworenen) e due «vere» opere: Rüdiger, incompiuta, e l’ambizioso Fierrabras.

Fierrabras è l’ultimo grande lavoro per il teatro composto e interamente finito. A commissionarglielo era stato il Kärntnertortheater (Teatro di Porta Carinzia), che a quel tempo perseguiva una politica di ampliamento del repertorio in lingua tedesca, contro la sempre perdurante invadenza italiana. Ma più che l’impresario in persona, il famoso Domenico Barbaja, sulla scelta aveva influito il segretario del teatro, Josef Kupelwieser, che era poi anche l’autore del libretto. Schubert scrisse la musica con la rapidità che gli era propria fra il 25 maggio e il 2 ottobre 1823. La prima rappresentazione era prevista per la fine dell’anno; ma il successo tiepido ottenuto dall’Euryanthe, eseguita in ottobre, provocò una brusca inversione di tendenza nei programmi artistici del teatro, provocando le dimissioni di Kupelwieser. Sicché, rimasta senza padrini, l’opera di Schubert venne dapprima rimandata, poi definitivamente accantonata. E di fatto non fu mai rappresentata durante la vita del suo autore. Riapparve, ma in un’edizione alquanto rimaneggiata da Felix Motti, a Karlsruhe nel 1897, per il centenario della nascita del compositore; poi, nel nostro secolo, sporadicamente, in edizioni per lo più tagliate e in forma di concerto (per esempio nel 1978 a Perugia, per la Sagra Musicale Umbra, con i dialoghi in prosa riassunti e detti da Fedele D’Amico); salvo le rappresentazioni dirette da Claudio Abbado nell’allestimento di Ruth Berghaus al Theater an der Wien per il festival di Vienna del 1988: che furono dunque, a oltre centosessant’anni dalla morte dell’autore, una «prima» assoluta nella versione integrale e originale di Schubert.

Fierrabras è un’opera «eroico-romantica»: definizione che racchiude stili diversi. Fonte del libretto, steso in versi da Josef Kupelwieser (fratello del pittore Leopold e come lui appartenente alla cerchia viennese degli amici di Schubert: poeta dilettante ma appassionatissimo di quel genere di teatro), sono la Chanson de Fierrabras (così apparsa nella versione provenzale in lingua d’oc tra il 1240 e il 1260 e poi tradotta in tedesco, e in prosa, nel XVI secolo) e l’antica leggenda germanica Eginhard und Emma, da cui proviene in larga misura l’intreccio amoroso e lirico. Lo sfondo storico è infatti quello dell’età delle Crociate, e in particolare della spedizione di Carlo Magno in Spagna contro i Mori per la riconquista delle sacre reliquie, sottratte a Roma dal principe Boland (o da Fierrabras stesso); cronologicamente, pochi anni prima della «rotta di Roncisvalle», cantata nella Chanson de Roland. Su questa base, intessuta di ideali cavallereschi e di profondi valori etici (il principe moro Fierrabras li incarna da protagonista, convertendosi alla fine del dramma per entrare a far parte della schiera dei Paladini di Francia, dopo aver rinunciato all’impossibile amore per Emma, la figlia di Re Carlo), si innesta la storia dell’amore, dapprima contrastato, poi appagato, di Emma stessa per Eginhard. Questo cammino di chiarificazione e di presa di coscienza in nome degli ideali più nobili della cavalleria si rispecchia in una seconda vicenda amorosa, che corre parallela e s’intreccia con l’altra, tra Florinda, sorella di Fierrabras e amante appassionata – così appassionata da ergersi a difesa dei nemici, nonostante la sua fede – e il prode Roland; sicché il «lieto fine» che suggella l’opera dopo molteplici peripezie, il sacrificio personale dell’eroe puro e generoso Fierrabras rifulgendo da un lato nella conquista della fede, dall’altro nella felicità delle due coppie d’amanti, è anche il trionfo del bene sul male e della forza sconfinata, che tutto abbraccia, dell’amore: nel segno di una visione romantica di tono affatto positivo, luminoso e trasfigurante.

Nei tre atti dell’opera questi motivi si dispongono in un modo assai vario, per così dire a raggiera: anziché fondarsi su una drammaturgia stringata e concentrata, l’opera tende a dilatarsi in più direzioni, fino a delineare un orizzonte poetico e musicale aperto, ricco di contrasti e di tensioni, di apici e di improvvise dissolvenze. E un terreno accidentato quello nel quale si muovono i personaggi principali, collocati su uno sfondo eminentemente corale, che sembra legare i loro destini: nei ventitré numeri che costituiscono la partitura troviamo in massima parte duetti, terzetti, quartetti, insiemi con cori. Ed è su questo piano che si sviluppa la concatenazione degli eventi, fino a sconfinare nel regno della fantasia, della pura invenzione e della favola, non di rado con tratti inverosimili, irreali se non surreali. Da questo punto di vista Fierrabras si allinea e prosegue la tradizione dell’opera romantica tedesca del primo Ottocento, risentendo di un clima tanto impastato di miti poetici e collettivi quanto punteggiato di richiami ai grandi ideali del mondo antico: ma osservati di lontano, come in sogno. Dimensione nella quale si inserisce, e agisce in profondità, la musica di Schubert, creando un’entità nuova.

La quale non va ovviamente valutata prescindendo da questi motivi. Eppure, il giudizio pesante, che riafferma una dura condanna di Hanslick, dato da Einstein nella sua monografia («sciocchezza sciagurata e allo stesso tempo piena di pretese […] la più indifferente, la più vuota e la più convenzionale fra le opere di Schubert»), può essere tranquillamente ribaltato proprio alla luce della funzione del testo in rapporto alla musica e alla storia dell’opera: fare non della psicologia e del dramma musicale – concetto oltretutto storicamente ancora di là da venire – ma creare delle situazioni fantastiche nelle quali la musica potesse espandersi e prendere per così dire il volo, quasi travalicando i singoli eventi e i fatti. Alla mancanza di coesione dell’evoluzione drammatica fa riscontro una piena musicale di ampio respiro, che non si lascia condizionare dalla logica della concatenazione drammatica ma che invece prende slancio dalla materia secondo traiettorie e percorsi del tutto interni al suo sviluppo. Non quindi una musica di stampo teatrale, ma una musica ispirata, che riempie i tempi e gli spazi del teatro con una decisa, prorompente autonomia. Più che a definire, essa mira ad evocare: svelando che la sua visione del teatro è di specie affatto soprannaturale, fiabesca, simbolica, e, se si vogliono usare termini psicologici, inconsciamente onirica.

Per questo non serve più che tanto chiedersi come si incastrino i fatti e come si motivino, o quale consistenza abbiano personaggi come Re Carlo, il fiero principe dei Mori Boland, i trepidi amanti o lo stesso Fierrabras, che attraversano l’opera per così dire a intermittenza, in chiaroscuro, e poi di colpo sono proiettati in primo piano e si illuminano come per incanto: giacché è nell’intensità specifica, momentanea della musica che queste figure acquistano il loro rilievo, la loro tensione emotiva, la loro rivelazione. Eroico e romantico è non soltanto il soggetto dell’opera, ma anche l’atteggiamento del compositore nei confronti della sua verità; e se il punto di arrivo è costituito da un armonico equilibrio, da una riconciliazione generale, il mezzo per arrivarci è il contrasto, l’oscillazione tra speranza e paura, volontà e dovere, realtà e sogno. Le svolte inattese, le divagazioni e le scorciatoie, gli sfoghi patetici e le riflessioni interiori: tutto ciò si manifesta nel corso dell’opera con sbalzi violenti, in un clima tempestoso e pieno d’ardore, con tensioni estreme che non nascondono l’ansia di raggiungere, quasi astraendo dal contesto, la massima intensità e forza espressiva. Non è dunque la continuità del dramma l’elemento caratteristico dell’opera, bensì la decisiva capacità della musica di illustrare e rappresentare in assoluto una serie di situazioni e di destini, rendendoli universali. I conflitti che dominano all’interno, nell’anima, vengono proiettati all’esterno, nei gesti e negli atti dei personaggi; come se ogni volta essi dovessero rimettersi in gioco totalmente per acquistare piena coscienza di esistere, per sé e per gli altri.

Alla logica della continuità si sostituisce così l’aspirazione, di pretta marca romantica, a cogliere per illuminazioni ed evocazioni una realtà che sfugge e che pure continuamente attira, nella quale tutti i conflitti si risolvono. A ciò mira, sempre, la musica di Schubert. Un attento esame della partitura dimostrerebbe fino a che punto nel Fierrabras la rete delle relazioni musicali sia stata concepita in funzione della costruzione globale. All’apparente discontinuità, all’eterogeneità dei mezzi impiegati, corrisponde una connessione strettissima degli elementi compositivi, e una ancor più granitica volontà artistica. Tutte le forme che l’opera offriva, Schubert le utilizza e le rifonde, tendendo alla sintesi dei diversi generi e stili. Alla tradizione del Singspiel, confermata non solo dai dialoghi parlati intercalati ai numeri musicali, ma anche da elementi formali caratteristici come il Lied, il Melologo, la Ballata narrativa, i piccoli, pittoreschi insiemi, si aggiungono così i modelli della grande opera di soggetto romantico ed eroico, così come si era sviluppata fino ad allora: l’argomento serio, lo spessore tragico; la Romanza, i passaggi orchestrali descrittivi, le scene corali grandiose, gli insiemi culminanti di carattere riflessivo o contemplativo, l’accelerazione della dinamica nei concertati d’azione. Ma se c’è un tratto che va soprattutto evidenziato, esso è rappresentato dalla tendenza, non solo nei Finali d’atto, alla «scena» di maggiori dimensioni, nella quale si susseguono, come in un vortice, e si concentrano senza soluzione di continuità più numeri del testo: quasi a configurare un’ansia espressiva implacabile, che rompe gli argini prefissati dal testo e invade la scena con fremente impazienza. Non però in modo incontrollato o indisciplinato: la piena della musica distendendosi in quella durchkomponierte Form che, messa a punto altrove, ora si applica e si sprigiona anche nella condotta drammatica. Ed è forse questo l’aspetto più nuovo e moderno del teatro schubertiano.

Arione, Bollettino – Associazione degli Amici del Teatro Comunale di Firenze, a. IV, n. 2, Maggio 1995

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