Tradurre all’epoca dei sopratitoli

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Quella delle traduzioni ritmiche è anzitutto una questione superata dai tempi. E mi spiego. Le opere venivano abitualmente tradotte quando erano novità del giorno o della stagione, prodotti che per entrare nel repertorio dei teatri di lingua e cultura diverse da quelle d’origine venivano resi accessibili nell’elemento, funzionale alla musica, del libretto. In questo senso è vero che perfino Wagner e Strauss, per non dire lo Schoenberg citato da D’Amico1, ne patrocinarono la traduzione: pur di facilitare all’estero la comprensione della loro musica, che sapevano nuova o comunque diversa, erano disposti a qualsiasi compromesso. Ciò non toglie che di un compromesso, verosimilmente ai loro stessi occhi transitorio, si trattasse. Inoltre esistevano allora, anche nei teatri che non avessero alle spalle una storia e una forte tradizione lirica, compagnie stabili di cantanti che eseguivano, facendole circolare, le opere nella propria lingua, creando così a loro volta una tradizione e una norma. La Carmen, per esempio, per lungo tempo circolò non soltanto in Italia ma anche in Spagna, Sudamerica e perfino in Germania nella versione italiana (con i recitativi musicati al posto dei parlati) anziché in quella francese, perché erano i grandi cantanti di scuola italiana e d’interpretazione verista a imporla. Ma da quando il repertorio si è stabilizzato sui titoli del passato (che sono stati dunque a poco a poco metabolizzati) ed è mutata la struttura dei teatri (abolizione delle compagnie stabili, perdita delle specifiche tradizioni vocali, scambio internazionale dei grandi cantanti da teatro a teatro), si è affermata la tendenza a eseguire le opere in lingua originale, ovunque: per una ragione più pratica che ideologica. Oggi, d’altra parte, i compositori che scrivono per il teatro (vedi i casi ultimi dei nostri Vacchi, Sciarrino e Corghi, più eseguiti all’estero che in Italia: ma questo è un altro discorso) predispongono versioni diverse per i singoli Paesi (in tedesco in Germania, in francese in Francia), magari in attesa che un successo internazionale decida quale sia la versione “originale” (naturalmente il ruolo del testo cantato nell’opera contemporanea è assai più flessibile: diciamo di tipo più strumentale che specificamente vocale).Non è un caso che da noi i residui della tendenza alla traduzione abbiano resistito più a lungo o in presenza di opere non ancora metabolizzate dal repertorio (di Strauss per esempio Capriccio, meno Salome o Elektra; di Berg semmai Lulu, non Wozzeck; Mahagonny di Brecht-Weill) o per autori di lingue particolarmente difficili, come quelle slave (caso emblematico: il rilancio di Janácek). Qui scatta il vecchio meccanismo: per rendere meno ostiche queste opere (e la loro musica, come traguardo finale), le si sono spesso tradotte. Io stesso ho tradotto per l’esecuzione in lingua italiana al Maggio Fiorentino due opere di Janácek, Il caso Makropulos e Káta Kabanova, Franco Pulcini credo altrettante (fatto, ricordo, che fece crescere notevolmente le nostre quotazioni appo D’Amico). Qui però entrarono in gioco le suddette mutate condizioni del costume teatrale. Per Il caso Makropulos, dopo aver cercato invano una protagonista italiana vocalmente all’altezza, dovemmo ripiegare su una cantante inglese, con risultati facilmente immaginabili (cantando lei in una lingua che non capiva, nessuno capì che cosa stesse cantando); nell’altro caso, dopo disperate, inutili ricerche, optammo nostro malgrado per l’esecuzione in lingua originale (il regista, il grande Ermanno Olmi, trovò una soluzione geniale: un attore sulla scena riassumeva in italiano l’azione che poi veniva cantata in ceco). Fu da questa esperienza che nacque l’idea, lanciata da Zubin Mehta, di importare dall’America il metodo dei sopratitoli, che furono battezzati per la prima volta in Italia al Maggio Musicale Fiorentino con I maestri cantori di Norimberga. Fu un successo travolgente: per la prima volta un pubblico italiano capì il senso delle contraffazioni di Beckmesser e rise a crepapelle. Resterebbe la questione di principio cara a d’Amico. Che è però un “mito culturale” né più né meno di quello della “versione originale”. Neppure d’Amico, che è stato il più grande traduttor de’ traduttori, è riuscito a “fornire agli esecutori la possibilità di un’espressione naturale e immediata”. Il meraviglioso stile di conversazione, così naturale e spontaneo, dello straussiano Capriccio, nella sua traduzione diventava una scivolosa arrampicata sugli specchi, un continuo esercizio da acrobata sulla corda senza rete: e il diavolo, mettendoci la coda, volle che Raina Kabaivanska, cantante splendida, non lo aiutasse con la sua dizione notoriamente impastata (ma di quanti cantanti si capiscono le parole, anche nella loro lingua? Forse, tra i sommi, solo Placido Domingo). Una versione ritmica, per quanto ben fatta (compito arduo: provare per credere), non restituisce sempre immediatezza e vivacità: dà solo l’illusione di capire, captando qua e là qualche sillaba. Ma a che prezzo? D’Amico, per esempio, usava aggiungere note allo spartito per conseguire una maggiore naturalezza della frase in italiano, e la linea del canto ne risultava continuamente modificata. Il ben più modesto sottoscritto, che invece si ostinava al principio della assoluta fedeltà alla musica, fece a suo danno l’esperienza della sua impraticabilità se non scadendo nel più insulso librettese (ostacolo insormontabile: i troncamenti delle parole). Varrebbe poi la pena di fare l’esperienza inversa: Mozart tradotto in tedesco, pesante e traditore. Ho fatto ancora in tempo a sentire nei teatri tedeschi lo storico Verdi tradotto da Franz Werfel e Fritz Busch e perfino lo Janácek del sommo Max Brod: sembravano, giuro, altre opere. Ma, buone intenzioni a parte, sono i tempi a essere cambiati, ineluttabilmente: un fenomeno, anch’esso, della globalizzazione. Quando, con Eliahu Inbal, facemmo la Tetralogia di Wagner alla Rai di Torino, accarezzammo l’idea di una edizione in lingua italiana. Contattai alcuni cantanti per sapere se erano disponibili, cominciando da Brunilde e Sigfrido: quelli che non mi risero in faccia, fecero notare educatamente che non era ragionevole imparare una parte così massacrante per cantarla una sola volta nella loro vita. Chi investe su una Brunilde o un Sigfrido con la speranza di far carriera, lo fa ovviamente in tedesco. Piccola postilla. I sopratitoli sono evidentemente un surrogato, ma almeno hanno il vantaggio di aiutare a capire il cosa senza snaturare il come. E poi. Non sarebbe meglio insegnare ai nostri ragazzi a scuola le lingue straniere (e magari, udite udite, anche l’alfabeto musicale), per metterli in condizione di seguire un’opera in lingua originale, con l’aiuto del testo a fronte? Sarà un caso che la riscoperta a livello mondiale di Britten (in lingua originale) sia avvenuta in epoca di diffusione planetaria dell’inglese?

 

 

1           Fedele D’Amico aveva scritto nel 1971: «E questo è il caso del Pierrot Lunaire, in cui le parole quasi fronteggiano la musica, con un loro peso semanticamente autonomo. Naturalmente ci si obbietta la faccenda dei valori fonici: estromettere dal Pierrot il suono della lingua tedesca pare sacrilego. Eppure Schoenberg stesso ne patrocinò una versione inglese, e basterebbe».

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