Due sono i filoni principali che caratterizzano la produzione teatrale di Sergej Prokofiev (1891-1953): uno dissacrantemente comico-fiabesco, epico-lirico con venature tragiche l’altro. Il primo trova espressione in commedie come L’amore per le tre melarance (1919) e Matrimonio al convento (1940-43); il secondo in opere quali L’angelo di fuoco (1927) e Semjon Kotko (1939), per dilatarsi nel grandioso affresco dell’epopea tolstojana di Guerra e pace (1941-43, ma rielaborata fino alle soglie della morte).
Il giocatore (Igrock, dal romanzo omonimo di Fédor Dostoevskij, 1866) inaugura questo secondo filone, sia pure con qualche deviazione di campo. Se da una lato si tratta di un’opera scritta di getto con gli eccessi tipici dell’età giovanile (la prima stesura risale agli anni 1915-16), dall’altro lato la vicinanza della versione del 1927, quella definitiva e più rifinita, con L’angelo di fuoco, di cui gli spettatori della Scala ricorderanno 1’edizione di due stagioni fa, non mancò di esercitare una chiara influenza sia stilistica sia drammatica.
Anche Il giocatore è la descrizione di un ossessione patologica, schizofrenica: calata sullo sfondo di una società marcescente, cinica e aggressiva, frenetica e a tal punto cialtrona da sembrar quasi strumento di una persecuzione diabolica.
La mania del gioco, nella quale questa persecuzione simbolicamente si manifesta nei personaggi, è però anche un mezzo per fare esplodere la tensione dei sentimenti, in una sorta di ricerca della verità estrema, o forse più semplicemente di una via d’uscita dal groviglio delle passioni: come se solo in questa esasperazione ogni personaggio potesse rivelarsi e, cercando di comunicare, redimersi dal tragico fallimento esistenziale.
La concentrazione del dramma operata da Prokofiev sul romanzo di Dostoevskij mira all’evidenza immediata dei conflitti e delle situazioni, riducendosi di fatto alla nuda e cruda esposizione dell’azione. Nel romanzo il protagonista Aleksej Ivanovic narra in prima persona la sua storia nella forma di un lungo monologo interiore; incorniciato, quasi a volersi distaccare da vicende ormai trascorse, da un prologo e da un epilogo. Aleksej cerca retrospettivamente di spiegare a se stesso non tanto l’ossessione del gioco quanto le ragioni del suo folle amore per Polina Aleksandrovna: fino a liberarsene. Rinunciando alla cornice degli antefatti e della «morale» conclusiva (niente ha un senso, tutto si ripete ciclicamente in attesa della fine: unica certezza è che «Domani tutto finirà!»), Prokofiev accentua invece la tensione dell’incalzante girandola degli eventi, concentrandola in un ritmo serrato, concitato, il cui motore propulsivo è la passione per il gioco: metafora, ancora più pronunciata che in Dostoevskij, di una condizione umana di ineluttabile necessità per così dire còlta in atto, e tale da attirare nel gorgo e travolgere individui tanto privi di equilibrio quanti assetati di verità. Come appunto quelli che consumano le loro speranze nel variopinto scenario della «città del gioco», la fantomatica Roulettenburg. Ne consegue che il motivo del gioco diviene esso stesso emblema di vitalismo; per toccare nel quadro centrale dell’ultimo atto – la scena della sala da gioco – un vertice di assoluta follia musicale, scandita dal movimento inesorabile della pallina nella roulette, dagli ordini inappellabili del croupier, dal nervoso commento dei giocatori: miscuglio incandescente di euforia e disperazione che accompagna l’epifania del caso.
E’ plausibile che l’interesse di Prokofiev fosse acceso proprio da questa situazione esistenziale estrema, esasperata perfino nei risvolti satirici.
La scelta del soggetto fu però determinata anche da considerazioni di altro genere. Musicando Il giocatore Prokofiev intendeva reagire contro le convenzioni drammatiche dell’opera tradizionale, e di quella russa in particolare. I cui difetti, a suo dire, si riassumevano nell’indifferenza per il «co-té» drammatico: e dunque in una sorta di uniforme rigidità statuaria che mortificava la sensibilità per il ritmo interno, dinamicamente inteso, dell’azione.
L’esigenza di conferire all’azione scenica duttilità, continuità e scioltezza si scontrava soprattutto con l’abitudine di servirsi di libretti in versi: una convenzione giudicata «completamente assurda». Il giocatore trae da queste premesse importanti conseguenze operative: un romanzo ricco di colori e di rilievi diviene la base per un’ opera adattata dallo stesso compositore secondo criteri di contrasti vivaci, talvolta fulminei oltre che sulfurei, ma tenuta insieme da uno stile di conversazione flessibile e pregnante, esaltato dalla caleidoscopica elettricità ritmica e amplificato in perpetua vertigine dall’orchestra.
Pur abolendo le forme chiuse dell’opera tradizionale Prokofiev non rinunciò però al suo valore più intrinseco: la forza rappresentativa del canto. Esso non è quasi mai, salvo che nei momenti lirici della pulsione amorosa, canto aperto, disteso, spiegato, ma piuttosto successione, reiterazione di brevi incisi melodici configurati in modo tale da caratterizzare spiccatamente un personaggio, uno stato d’animo, un gesto.
Il tema di Aleksej, annunciato fin dalla sua entrata all’inizio dell’opera, è connotato da una melodia che sale faticosamente verso l’acuto per scivolare dolorosamente di un semitono quando viene pronunciato il nome dell’amata Polina: simbolo immediatamente palese di un’aspra tensione verso qualcosa di sfuggente, di irraggiungibile. Ogni personaggio è definito essenzialmente dallo stile vocale: la fatua Bianche, il cinico Marchese, il compassato Mister Astley, il grottesco principe Nilskij, il caricaturale Generale, lampanti presente di una comicità quasi surreale.
Su tutti si innalza il personaggio della Nonna, fagocitata dal demone del gioco. L immagine, intrisa di nostalgia di tenerezza, della vecchia babulenka suggerisce a Prokofiev il ricordo delle melodie dell’infanzia per assumere finalmente, nel contesto «moderno» del dramma, un colore inequivocabilmente russo, insieme squillante e sfumato, di eternità.
Ma il vero protagonista del Giocatore è la roulette, che ha anch’essa un’identità musicale: illuminata non dal canto, bensì dall’orchestra. La sua carica visionaria, stridente e dissonante, circola subdolamente tra i personaggi dell’opera per assumere solo nell’ultimo atto una manifestazione completa: prima nella già ricordata grande scena al tavolo verde, pagina di fenomenale fantasmagoria descrittiva, poi nell’allucinazione che segue alla prodigiosa vincita del giocatore. Prendendo le distanze dall’epilogo del romanzo Prokofiev si arresta di colpo con un duplice colpo di scena all’acme di un funesto delirio: paradossalmente la vincita di Aleksej, mezzo e fine della sua felicità, coincide con il crollo delle speranze e delle illusioni, lasciando il giocatore annichilito di fronte al rifiuto di Polina. L’insostenibile leggerezza del gioco celebra così il suo trionfo, con ironia tragica, senza scioglimento finale, senza catarsi.
da “”La Repubblica””