Grande Dallapiccola
La sua formazione, che così profondamente avrebbe inciso anche sulle scelte compositive, avvenne su due direttrici complementari: a una solida educazione umanistica, radicata nella giovinezza e poi proseguita per tutta la vita con tenace passione, si unì coi tempo, nel segno della musica, 1’attrazione per il mondo tedesco, con una curiosità intellettuale favorita anche dal fatto di esser nato in una città di confine dell’impero austro-ungarico, tra culture diverse. Nella mentalità tanto inquieta quanto ferrata da una rigorosa autodisciplina, questo tardivo figlio della civiltà mitteleuropea trovò l’equilibrio per non disperdere, pur tra differenti interessi, la lucida coscienza della propria missione di creatore, facendo anche del dubbio e della solitudine una molla dell’azione e dell’impegno. Dubbio interiore, s’intende, fertile e vigile; non certo originato da difficoltà esteriori, che pure furono molte fin da quando, trasferitosi a Firenze per continuare gli studi, Dallapiccola dovette sopportare incomprensíone e ostilità, e perfino l’amarezza dello scherno: senza tuttavia minimamente mutare l’orizzonte della sua ricerca. Che seppur assai avanzata, d’avanguardia non fu propriamente mai, dell’avanguardia rifiutando decisamente il gesto e la provocazione in quanto tali.
Erano gli anni difficili in cui una parola come dodecafonia, per lo più quasi ignorata dai musicisti italiani, generava volgari storpiature, e la stessa rivalutazione della tradizione polifonica e strumentale del nostro passato, saldata con le acquisizioni linguistiche più moderne, era vista con sospetto nel Paese del melodramma. Assecondando la sua vocazione europea, frutto di scelte liberamente esercitate sui modelli della seconda Scuola viennese, Dallapiccola sí affermò anzitutto all’estero, con la qualità ineccepibile delle sue opere: via via onorando, dopo averli oculatamente preparati, gli appuntamenti con la storia. Si realizzava intanto la conquista della coscienza umana e civile come contenuto dell’opera, culminante, dopo progressive messe a punto della tecnica e dello stile vocale e strumentale, nella prima, enigmatica prova teatrale, Volo di notte da Saint-Exupéry, e nei capolavori degli anni di guerra e di protesta, Canti di prigionia e Il Prigioniero: tappe decisive, queste ultime, anche sulla strada della completa adozione della composizione dodecafonica, che avrebbe caratterizzato tutta la fase matura dell’arte dallapiccoliana.
Che questa adozione significasse anzitutto una base su cui costruire, un baluardo asceticamente eretto su quell’abisso di vuoto e di disperazione che sembrava contraddistinguere tanta arte moderna, e che come tale costituisse anche uno «stato d’animo», un «modo di essere» a difesa di valori luminosi e positivi su cui operare con fantasia individuale, è ormai constatazione tanto certa quanto inattuale, su cui non occorre insistere. A Dallapiccola premeva compiere, nell’unità del discorso musicale garantita dalla lingua-base del metodo seriale, un’ininterrotta ascesa verso la luce, aperta sull’immenso; come nel tracciato della sua opera più complessa e ambiziosa, Ulisse, compendio singolare di suggestioni spazianti da Omero a Dante a Joyce, si rende addirittura dichiarato all’infinito. Ma ancor più che nel mancato senso costruttivo dell’insieme, nell’ideale architettonico fissato da simboli e rimandi, corrispondenze e simmetrie, numeri e canoni, la qualità suprema dello stile di Dallapiccola si manifesta da un lato nella forza interiore del canto (un canto inteso come assenza dell’espressione, e dunque partecipe di una nostalgia di arcana purezza), dall’altro nell’amore sviscerato per il timbro cristallino, evidente nello splendore del suono stellare.
Questa sensibilità di antico stampo artigianale, proiettata nella dimensione umanistica di un’arte impegnata, è tangibile testimonianza di fede incrollabile in quei valori universali che alla musica è dato oggettivamente rivelare. L’insegnamento di Dallapiccola, nell’ostica bellezza dei suoi lavori, è infine anche questo: il dovere morale e artistico di vivere nel proprio tempo, di confrontarsi con la storia, non annulla la tensione verso il soprannaturale, non annebbia la vista del futuro. Che non è solo nell’idolatria del linguaggio o della materia, ma nello spirito, nell’uomo padrone dei suoi mezzi e tuttavia assetato di conoscenza.
da “”La Voce””