Wolfgang Amadeus Mozart – sinfonia in do maggiore K. 551 (“Jupiter”)

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Le musiche in programma

Nel breve spazio di tre mesi, durante l’estate del 1788, in un momento della sua vita rattristato dallo scarso successo del Don Giovanni a Vienna, dalla povertà, dalla morte della piccolissima figlia Theresia, Mozart scrisse, forse in vista di qualche progettata “”accademia””, le tre Sinfonie che sarebbero state le sue ultime, nate fra le amarezze ma anche attingendo a un misterioso e inesauribile fondo di gioia musicale. Dopo la calda luminosità della Sinfonia in mi bemolle maggiore K. 543, a cui la solennità di certi “”segnali”” massonici non toglie niente dello smalto festoso, e la drammaticità raccolta e nondimeno tormentata della Sinfonia in sol minore K. 550, la Sinfonia in do maggiore K. 551 (terminata in partitura il 10 agosto 1788) celebra il trionfo di un magistero tecnico ed espressivo tanto spontaneamente dissimulato quanto pazientemente costruito nel confronto con il presente (Haydn) e con il passato (lo studio del contrappunto bachiano e händeliano), fino a creare una sintesi emblematica del pensiero sonatistico classico e della fuga barocca. Dopo la scelta di un organico più concentrato per la Sinfonia in sol minore, Mozart ritorna al fasto timbrico di quella in mi bemolle, reintegrando trombe e timpani, ma rinunciando ai clarinetti: una tavolozza timbrica tesa a valorizzare il carattere vittoriosamente, solennemente affermativo di un lavoro che, con la lucentezza abbagliante delle sue snelle geometrie formali, si allontana, per superarli, non solo dalla robusta opulenza della Sinfonia K. 543 ma anche dal cupo patetismo della Sinfonia K. 550.

La Sinfonia K. 551, nella sua maestà solare intonata a olimpica grandezza (donde il soprannome di Jupiter, postumamente attribuitole dagli editori, forse su suggerimento dell’impresario londinese Salomon), coniuga la solidità comunicativa di un do maggiore dimostrativamente epico e monumentale con la forza inquietante della ricerca contrappuntistica: come a voler mettere alla prova una conquista, artistica non meno che professionale, perseguita in orgogliosa solitudine, oltrepassando le stesse delimitazioni temporali e spaziali della forma sinfonica. La Jupiter è una sorta di apoteosi dei principi dialettici della forma-sonata, estesi prodigiosamente a ciascuno dei quattro movimenti e tuttavia innervati da un uso del contrappunto così organico da aprire nuovi orizzonti espressivi: di cui il grandioso edificio polifonico della fuga finale si pone al vertice come il capolavoro dello stile classico nella sua stagione più matura.

I1 movimento iniziale (Allegro vivace), privo di introduzione lenta quasi a voler entrare subito autorevolmente in mediar res, si apre con un incipit tra i più famosi, la proposta delle notine “”in levare”” dell’orchestra che piomba assertivamente sull’accordo di do maggiore d’impianto, cui segue il più flebile inciso degli archi. E’ quasi una commediola a due motti musicali che si prolunga in un fine tessuto di elaborazione prima che subentri con la sua grazia il secondo tema, e poi un tema ulteriore, apparentato a un’arietta che Mozart aveva scritto qualche mese addietro per l’edizione

viennese di un dramma giocoso di Pasquale Anfossi. Anche quest’idea sorridente si incorpora a fondo nella ricca trama contrappuntistica che caratterizza lo sviluppo, rivelando un tratto peculiare, supremamente gestito, sotteso alle sue olimpiche certezze: l’incrocio di “”alto”” e “”basso””, facile e difficile, severo e popolare.

L’assorto Andante cantabile in fa maggiore ha anch’esso una latente struttura sonatistica nell’interazione raffinata delle due idee principali: quella iniziale dei violini con la sua inconfondibile movenza di candore (prolungata e incrociata con la sua prosecuzione, in un respiro più ampio e drammatico che sale dai suoni gravi dell’orchestra), seguita da una seconda sezione espositiva dominata da una nuova idea, affine alla prima nel profilo ma di tutt’altra intonazione. Essa prende slancio e dà all’Andante quell’improvvisa, emozionante apertura sul sublime che in Mozart è una porta sempre aperta a spalancarsi. Porta che, come in questo caso, gira sui cardini delle straordinarie caleidoscopie armoniche in modo minore, animate da sincopi e dissonanze che drammatizzano stilemi arcaici e chiesastici. Il Minuetto è una pausa di grazia volteggiante, nelle cui pieghe l’orchestra lascia intendere il plastico tema-soggetto del colossale Finale, già usato da Mozart in vari lavori, soprattutto a destinazione sacra: le famose quattro note da cui il tema-soggetto prende avvio hanno infatti un tono di oggettività atemporale che ne rivela l’origine ecclesiastica e al tempo stesso la trasfigura in materiale di costruzione sinfonica. E’ un Finale in cui la fuga e la forma-sonata, il passato e il presente, si fondano in una struttura perfettamente compiuta: il principio dell’imitazione e della lavorazione del soggetto fra le varie voci, e quello dialettico della contrapposizione fra aree tematiche e armoniche, vi hanno pari peso: di fatto tutto il materiale tematico deriva da quel tema-soggetto per via di procedimenti squisitamente contrappuntistici come l’inversione ed elaborativi come la variazione. Questi procedimenti si prolungano fin nella ripresa e nello stretto conclusivo, dove i temi sono presentati insieme, sovrapposti e trionfanti. Mozart si impegna e si diverte a rendere il più possibile ampia, tesa, articolata, sorprendente la conciliazione tra i principi della fuga e della forma-sonata, combinando con estrema naturalezza elementi “”gioviali”” ed “”ermetici””. Viene così realizzato il sentimento della Sinfonia come estesa geometria e costruzione salda, oggettiva campitura formale che è il risultato di un pensare in grande, senza che venga abbandonata la ricerca di un carattere e di un colore dell’espressione, la conquista più evidente del tardo stile mozartiano.

Philippe Entremont / Orchestra dell’Arena di Verona
Fondazione Arena di Verona, Stagione sinfonica 2002/2003

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